Questo è l’ottavo appuntamento di una serie di uscite che proporremo ai nostri lettori ogni domenica a cura di Fairbooks
Nota: Diego Banovaz è il Ceo di Fairbooks, una startup che si definisce «Lo Spotify dei lettori, l’Uber degli scrittori», una piattaforma web per scrittori indipendenti che vogliono pubblicare la propria opera gratuitamente. Ci hanno proposto di raccontare la vita di chi fa startup nell’acceleratore romano di Luiss Enlabs. Questo è l’ottavo appuntamento di una serie di uscite che proporremo ai nostri lettori ogni domenica.
Quando inizi un programma di accelerazione ti butti a capofitto in qualcosa di nuovo, ti lanci in un processo formativo condensato, una sfida continua con il mercato, un testing continuo dei risultati, un pivoting talmente estremo che, riguardandoti indietro ti trovi a domandarti quale fosse l’idea iniziale dalla quale eri partito. Non è un processo facile o indolore, credo che io e il magico Kodo non abbiamo mai lavorato meno di ottanta ore a settimana (si, a testa). Arrivi al punto di lavorare talmente tanto che quando gli altri ti danno dello stakanovista ti viene naturale la risposta: “si può biasimare qualcuno per rincorrere troppo i propri sogni?” (Nota: frase multitestata, ottima pickup e scusa estremamente safe) E così, in men che non si dica, ti trovi a guardare il calendario, renderti conto che da lì ad un mese e spiccioli il programma d’accelerazione sarà finito e tu, sperabilmente, dovrai presentare davanti a centinaia di business angels, venture capitals e affini.
È una sensazione contrastante quella che si prova: da una parte ti senti di volere più tempo, come un bambino che supplica la madre per poter dormire altri cinque minuti, dall’altra senti quella necessità di sfogare tutto quello che hai prodotto nei mesi passati, di urlarlo al mondo, di lanciarti e sapere come andrà a finire. Se all’inizio del programma di accelerazione tutto poteva venir accomunato ad un “emotional roller coaster”, adesso ti trovi ad immaginarti più come un piccolo gattino foffoso dentro una lavatrice con la centrifuga al massimo.
La cosa positiva, se così si può dire, è che si può applicare il proverbio “mal comune, mezzo gaudio”. Dopo mesi di accelerazione, dopo aver condiviso demo day, successi e fallimenti con le altre startup ormai si è tutti una sorta di grande famiglia. Ed è dalle piccole cose che capisci le diverse prospettive. Ultimamente si fa un gran parlare della selezione di quattro delle startup del nostro batch che dovranno tenere un pitch (ho scritto inizialmente pitchare, mi sono dato 3 pacche sulle mani, non lo farò più), a Berlino a fine giugno. E così, nei vari discorsi scopri i diversi punti di vista, soprattutto quelli “autocritici” dei diversi CEO. Chi annuncia problemi d’utenza, chi di retention, chi di modello di business…
E ti rendi conto che non è solo una naturale estensione del proverbio “l’erba del vicino è sempre più verde”, ti rendi conto di due cose: che in tre mesi non si può avere un prodotto perfetto e che solo il CEO di una startup ne conosce veramente le dinamiche, le problematiche, i punti ancora aperti, le criticità e gli eventuali eventi che possono determinarne il “game over”. E intuisci, avvicinandoti al fund raising che ci sarà una sola cosa che potrà determinarne il successo o fallimento: la tua capacità di saper vendere il sogno che stai realizzando.
E, chi ha ideato il programma di accelerazione, questo lo sa meglio di te. Con l’approssimarsi della fine del programma ci sono due cose che, nella vita del CEO, entrano a gamba tesa come un Pablo Montero dei nostri giorni: public speaking e metriche.
Prima cosa, saper parlare in pubblico è, per me, un’arte. È la capacità di saper trasmettere la sensazione che si vuole alla platea, saperli prendere per mano e guidare esattamente nel posto in cui desideri accompagnarli, saper lasciare nella loro mente esattamente quella traccia emotiva che si ricorderanno ogni volta che ripenseranno a te o al tuo progetto. Un po’ come con le ragazze ed i profumi che indossano, quelle fragranze che, risentite anche anni dopo ti riporteranno a ricordi, volti, sorrisi.
Esistono interi trattati che parlano del public speaking, regole di massima, finezze… In realtà, tolto tutto, per me rimane un solo goal per chi parla davanti ad un’audience: riuscire a trasmettere quella curiosità di volerne sapere di più, di incontrarvi, di approfondire quanto state facendo. Anche di criticarlo, se volete. Il peggior fallimento per uno speaker è concludere il proprio discorso senza che vi siano domande, sintomo di non aver suscitato curiosità.
Ovvio si sta parlando di startup e business. Non lo vedo come un trionfo per un eventuale discorso di Saruman il fatto che un Uruk Hai alzi la picca e domandi una previsione a 12 mesi del suo piano di conquista o un approfondimento sul competitor “cavalleria dei Rohirrim”.
Io sono fermamente convinto che alcune parti del programma di accelerazione siano state “rubate” all’addestramento ISIS.
Avete presente lo zoo? Con le sue gabbie con gli ambienti nativi ricreati? Con i gruppi di turisti che passano assieme alla guida in continuazione? Togliete le sbarre, metteteci dei tavoli e delle startup sedute attorno. Cambiate al volo la scritta “non date da mangiare agli animali” con “non date da mangiare agli startupper e ci siete, state vivendo l’acceleratore dall’altra parte della barricata.
Tu sei lì, indipendente che tu stia sistemando gli economics o modificando il backend della tua piattaforma, e vedi il gruppo di “turisti” avvicinarsi. Per un attimo senti quella sensazione da “dai, cazzo, non interrogare me oggi”, ed è proprio quello il momento in cui sai che sei segnato. Trenta secondi per capire la lingua da utilizzare e via…
“Ciao sono Diego Banovaz e sono il CEO di Fairbooks. Fairbooks è…”
E via di supercazzola. Il “meno-fedele” Kodo si è già dato alla macchia, Rodrigo (il nostro designer) finge di non conoscere più la nostra lingua, Francesca è già passata dall’altra parte della barricata.
Nelle diverse tattiche da “public speaking”, c’è chi consiglia di impararsi a memoria i primi trenta secondi di presentazione per poterla spiattellare sul palco e nel contempo superare quella timidezza iniziale, rompere il ghiaccio. Io, onestamente, vado sempre e comunque a braccio. Indipendentemente da quanto mi sia figurato il discorso in testa, vedo chi ho di fronte e mi trovo ad aggiustarlo come meglio posso per cercare di arrivare esattamente al target. Non fraintendetemi, non è che credo di saperlo fare molto bene, dico solo che mi viene naturale, molto più naturale che dover “pensare a non sbagliare neanche una parola” del discorso che mi sono memorizzato.
E così, dopo aver passato la mattina a sistemare una presentazione, il pomeriggio ad esporla in università a degli studenti della magistrale, ritorno in ufficio tutto contento e pimpante: ti hanno fatto decine di domande, ti han cercato di mettere in difficoltà e hai saputo rispondere, ti hanno aggiunto su Facebook, hai ricevuto i complimenti del docente… Arrivi al Desk e vedi l’indispensabile Kodo affranto che guardo lo schermo. Guardi l’ora, sono le 20.00. Ancora un’ora a disposizione per approfittare della promo “birra e tagliere” del Luppolo12.
“Kodo, birrezz?”
“Si, forse è meglio, non sono più produttivo. Per oggi ho dato.”
“Ok, una e dopo a casa, però.”
E, come spesso accade nella vita, le cose non vanno come ti aspetti. E ti trovi, dopo una birra stout chocolat, a bere ingiustificabili Tennents, catalizzatrici dell’ignoranza. E così, mentre il mirabile Kodo invia foto di Rasputin alle amiche ti passa per la mente una frase mai tanto vera: “la cosa più importante per una startup è il team”.
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