Questo è il secondo appuntamento di una serie di uscite che proporremo ai nostri lettori ogni domenica.
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Nota: Diego Banovaz è il Ceo di Fairbooks, una startup che si definisce «Lo Spotify dei lettori, l’Uber degli scrittori», una piattaforma web per scrittori indipendenti che vogliono pubblicare la propria opera gratuitamente. Ci hanno proposto di raccontare la vita di chi fa startup nell’acceleratore romano di Luiss Enlabs. Questo è il secondo appuntamento di una serie di uscite che proporremo ai nostri lettori ogni domenica.
Vi lascio solo immaginare l’effetto di una chiamata del genere, soprattutto nel contesto prima descritto. Una parte di te, visto il ritardo, aveva già accantonato quella strada e stava già lavorando sui soliti piani da B a AX (per l’enumerazione si proceda secondo logica Exceliana). Quando metti giù il telefono senti che, dopotutto, ti aspettavi di essere più emozionato. Hai anche il tempo di complimentarti con te stesso per averla presa molto razionalmente.
Poi inizi a ridere.
Non sto scherzando, forse sono stato vittima del primo esperimento di profusione a mezzo rete mobile di gas esilarante perché l’effetto è stato quello. Camminavo per la baita ridendo, cambiando stanza e mangiando fette biscottate come la solerzia di un novello Pac Man carboidrato-dipendente. Nessuno mi prestava particolare attenzione, dopotutto la maggior parte dei presenti stava facendo cose ben più strane, quindi il mio comportamento è riuscito a passare assolutamente inosservato. Finito il pacco di fette biscottate, rimaneva solo una cosa da fare: avvisare i soci.
Per inciso, il più complicato da avvisare stava a tre metri da me: come fai a trasmettere un’informazione precisa e sicura ad un nerd che sta giocando al gioco da tavolo di Battle Star Galactica mantenendo la segretezza della stessa visto che hai giurato sul tuo onore di farlo? Se scoprite come farlo, fatemi sapere. Io ho chiamato gli altri due e poi ho aspettato che la partita finisse.
Visto che stavo partendo per Cracovia, c’era un capodanno di mezzo e gli altri soci si trovavano a centinaia di kilometri di distanza, abbiamo fissato la riunione a circa dieci giorni di distanza con un’idea ben precisa: da lì bisognava uscire un piano di battaglia a prova di bomba.
Sulla riunione, tenuta in una sorta di osteria di Gemona del Friuli, aleggiava quell’aria da duello western. Avete presente quelle scene con sguardi infiniti in cui ti senti addosso il sudore e la polvere degli attori del grande schermo? Aggiungeteci la nausea per la sbronza della sera prima e un rimestio gastrointestinale derivante da tre piatti di pasta panna e salsiccia.
Prima ancora di parlare era ben chiaro che uno di noi non ci avrebbe seguito. Aveva i suoi motivi, sono scelte importanti che ognuno deve prendere… Ma che un CEO non può condividere. Come fa, quel folle, a rifiutare l’occasione di lavorare per la Startup con l’idea più figa del mondo? Come può anche solo pensare una cosa del genere? Come fa a cestinare quell’anno di lavoro per restarsene attaccato al suo lavoro da dipendente? Ma soprattutto… E se mandando una modifica al team decidessero di segarci e non farci partecipare al programma di accelerazione?
Ricordo un frammento del dialogo, in cui fu definito “rischioso” il lasciare il lavoro da dipendente per una posizione in una startup che in quel momento stava fatturando 0€. La mia risposta era stata piuttosto secca: Rischioso? Cosa c’è di più rischioso di legare la propria vita ad una posizione fissa in una società di consulenza che ti abbandonerà da un cliente? Cosa c’è di peggio di vedere le proprie competenze e la propria creatività inaridirsi a fronte di un’obsolescenza della mansione ricoperta? Cosa c’è di più rischioso di lavorare per “un cazzo e spicci”, 9-18, per quarantacinque anni sperando in una pensione in grado da sfamarti a malapena?
Lo ammetto, i toni della riunione, nonostante le pistole, i cappelli a tesa larga e lo strato di sudore, sono rimasti sempre fraterni. La sensazione personale oscillava tra il “e se poi te ne penti?” alla Padre Maronno, al “come hai potuto farlo?” degno di una fidanzata tradita. C’era quel che di “voglio ma non posso” che mi ha sempre fatto incazzare. La gente spesso si pone dei limiti legati alla scarsa fiducia in sé stessi e spesso spreca occasioni solo per quello. E poi era (ed è tutt’ora) un amico che non avrebbe condiviso con noi quest’avventura…
Decise quote e ruoli la cosa si sentiva più vera e palpabile. Avete presente quando avete di fronte una lista di Task (attività) sui quali grava un “ma forse li sto facendo per niente”? Ecco, io funziono in maniera decisamente binaria: la priorità di qualcosa è zero o uno. Perché questo è importante? Perché immediatamente tutti quelle attività fino a quel momento “in zero” sono diventate “vita o morte”.
In breve, le cose da fare erano:
- Trovare casa a Roma
- Far licenziare kodo (Sì, si chiama così il socio che è sceso con me a Roma.)
- Concludere tutto ciò che riguardava i piani sopraccitati da B a AX
- Andare a Malta per altri due progetti
Tralascerò tutto ma vi farò una domanda: avete mai cercato casa a Roma? Rilancio aggiungendo un po’ di vincoli: avete mai cercato casa a Roma con dei vincoli quali “possibile fine contratto dopo sei mesi” e “nessun reddito dimostrabile”?
Cercherò di essere sintetico: una delle migliori offerte è stata pagare in anticipo 9900€ con tanto di fidejussione dei genitori per garantire in caso di danni. Ora, sarò all’antica, ma di fronte ad un’offerta del genere l’unica cosa che si può fare è augurare al locatore di venir investito da un treno merci carico di scorie radioattive e letame. La “seconda scelta” era una casa a meno di un kilometro dal posto di lavoro, appena rimessa a nuovo, disponibile a fare un contratto di sei mesi… Ma a San Lorenzo.
Premessa, io prima di allora avevo frequentato solo le parti di Roma più turistiche. Fatto sta che, prima di prender casa, ho preferito affidarmi a degli amici romani per avere una loro opinione in merito. Avete presente la reazione che può avere una madre alla notizia che la figlia ha perso la verginità, è rimasta incinta e ha preso l’AIDS in un colpo solo? Ecco, la reazione delle mie conoscenze è stata più o meno la stessa: dalla loro descrizione il quartiere di San Lorenzo si configurava come un moderno Vietnam, solo con una più alta probabilità di decesso per Napalm. Non sto esagerando, le definizioni adottate sono state tante ma vertevano sempre sulla probabilità tendente all’uno di incontrare qualcuno “con le lame” pronte e toglierci per sempre da questo mondo dopo averci sfilettato come delle orate appena pescate al ristorante giapponese.
No, davvero, voi potete pensare sia stata una scelta facile ma ogni persona con la quale mi interfacciavo rincarava la dose. Sembrava davvero una condanna a morte certa. Oggi posso dire di vivere a San Lorenzo da più di un mese e di essere ancora vivo. Credo lo aggiungerò al curriculum.
In sunto, ritorno da Malta alle 18 all’aeroporto di Treviso, macchina, casa, valigia e treno notturno per arrivare a Roma alle 6 di mattina del giorno dopo. Dopo aver preso posto nell’openspace e aver lasciato i bagagli a casa, tutti in sala convegni per il primo discorso d’introduzione.
Avete presente quella sensazione da primo giorno di scuola? Quel misto tra essere emozionati e non volerlo far trasparire? Quel pendere dalle labbra di qualcuno misto “sono troppo grande per farmi intimorire”? La sensazione è più o meno quella… Il discorso, oltre a fornire tutti i dettagli effettivamente utili per seguire il programma di accelerazione, alterna i momenti da Sergente Hartman a momenti quasi paternalistici. Certe uscite spaventano, altre lasciano perplesso… L’idea che traspare è piuttosto evidente: siamo qui per fare business, finché facciamo scelte guidate dai dati e dal profitto, non ci sarà nulla da temere.
Per chi è più tecnico, la struttura del programma d’accelerazione è molto semplice e per questo efficace: sprint da dieci giorni con Demo Day alla fine di ogni Sprint. Struttura del lavoro Scrum classica. Dieci sprint di programma, i primi quattro dedicati al prodotto, i secondi quattro all’analisi delle metriche e gli ultimi due per concentrarsi sulla revenue. Tutto questo arricchito da un approccio Data Driven del tipo: hai dei dati che confermano quello che stai proponendo? Facciamo così. Hai delle opinioni? Facciamo come decidiamo noi. Sembra una cazzata, ma effettivamente l’approccio ingegneristico volto a misurare tutto ciò che è misurabile, è spesso l’unica luce che cerca di guidarci all’interno delle dinamiche del business nel quale ti stai addentrando. Fare startup spesso significa battere strade non ancora percorse e per le quali non esiste un manuale esatto… Avere tutte le informazioni è il primo passo per trovare quelle giuste.
L’introduzione finisce lasciando un sacco di domande sospese, alcune vengono espresse mentre altre rimangono intrappolate nella certezza che la risposta era già stata data e non si era trovato il modo di carpirla. Tempo mezz’ora per ingollare un paio di caffè e parte il primo aperitivo di networking.
Come sempre in questo caso, pronti ad indossare il miglior sorriso e a conoscere nuove persone. Nella sala allestita, adorna di supplì, pizza e soprattutto vino e birra, quasi un centinaio di figure si arrabattano per saziare fame di nuove conoscenze e fame vera e propria. Il problema in queste situazione è calcolare ESATTAMENTE il momento opportuno per lanciarsi sul cibo, il momento opportuno per azzannare quello che si tiene in mano e il momento perfetto per conoscere qualcuno. Credetemi, non è facile. Da una parte vedi che le scorte alimentari si stanno esaurendo rapidamente mentre dall’altra il partizionamento della sala rende sempre più difficile inserirsi nei cluster umani che si stanno formando. E in tutto questo dovete tener presente le mani unte dagli arancini o dalla pizza che probabilmente è meglio non stringiate a nessuno, i pezzi di riso tra i denti, il sugo pronto a saltare su una delle poche camice decenti che ti è stata in valigia e il non dover parlare con la bocca piena. C’è gente che si è tolta la vita per molto meno, ne sono certo.
Dopo aver conosciuto un paio di persone, rapito dallo spirito di Filippo il Macedone, mi son girato verso il fidato Kodo dicendo, sempre tenendo ben presente le sopraccitate regole del convivio a supplì, “Divide et impera!”. Il piano era semplice: dividerci e conoscere più persone possibile.
Ci ritrovammo dopo dieci minuti.
“Io ho conosciuto il CEO della baracca, quello che supporta le exit e quello che aiuta nella fase di fundraising, il CEO di una startup con il quale possiamo trovare mille sinergie e l’avvocato che ci aiuterà a costituire la società. Tu?” Silenzio. Supplì. “Solo fighe, vero?”
Neanche il tempo di coniare un nuovo insulto che arriva la comunicazione di servizio. Tutte le startup sul palco, un pitch veloce per presentarsi.
Tutti colti alla sprovvista iniziano a cercando di produrre qualcosa di decoroso di fronte alla platea. Alcuni provano la tattica del “diciamo giusto chi siamo, tre parole a testa e tutti a casa”, altri provano a fare la replica senza slide del pitch all’Investor Day… Insomma, il caos più completo. L’idea di trovarsi di fronte ad un’audience “formata” a fare quello che viene richiesto di fare non essendo formati a farlo non è proprio così banale. È come sentirsi domandare di cantare una canzone davanti ad una scuola di musica, senza ovviamente avere nessuna preparazione.
In realtà credo di essere piuttosto fortunato, tenere il palco o parlare in pubblico non mi è mai stato un problema, sarà per il passato nell’animazione, sarà perché di pitch ne ho fatti tanti… Fatto sta che ho fatto un madornale errore: “… la nostra App è già disponibile sullo store, potete scaricarla…”
Fine del networking, inizio del shit-valanghing, neologismo per intendere una valanga di feci pronta ad essere scaricata sul diretto interessata. Perché, vedete, l’animo dello startupper è sempre in estrema competizione ed è sempre un sacco curioso. E se ha già dell’esperienza, il tutto viene amplificato: trovare un bug o qualcosa da migliorare diventa una priorità assoluta perché immediatamente lo startupper diventa il paladino dell’esperienza utente e vuole a tutti i costi riuscire a trasmetterti l’importanza di quanto ha scoperto sulla tua App in 30 secondi.
Ok, può sembrare ridicolo, può sembrare assurdo… Ma vi rendete conto di quanto è una fucilata in faccia sentire venti persone nel giro di dieci minuti che ti riportano bug, segnalazioni, modifiche e pareri? Utili, certo. Interessanti, certo. Però se non hai quello zen dentro che ti permette di accettarle come critiche costruttive… Beh, diciamo che non dai proprio il meglio di te!
L’aperitivo continua, parli con tizio e ci trovi delle affinità, parli con caio e ne trovi altre. La sensazione è quella di essere entrato in un mondo fatato in cui la parola che fino a quel momento era sempre stata sinonimo su fuffa e supercazzola, ossia sinergia, finalmente ha un valore vero. L’idea di fondo, dopotutto, era quella di giocare tutti nella stessa squadra, anche se ognuno ovviamente fa i suoi interessi è assolutamente interessato ad ascoltare e capire come può esserti d’aiuto prima di domandarsi come puoi aiutarlo tu a lui.
E poi c’è una costante, inizialmente divertente che diventa fastidiosa dopo poco, come uno scherzo sul proprio nome. Avete idea di quante volte uno che si chiama Diego si sente dire “So’ Dieco, te spieco!” da un’imitazione grottesca di Abatantuono? Ecco, solo che la frase in questione è: “Oh, quindi voi siete del nuovo batch! Eh, guardali, così belli e riposati!”
Sorridi, di circostanza sorridi, mentre dentro di te pensi al fatto che sei appena tornato da una settimana a Malta in cui hai camminato in media venti kilometri al giorno, hai partecipato alla costituzione di una società, partecipato a riunioni, bevuto più Jägermeister che acqua, preso un volo, guidato due ore, caricato i bagagli e partito col treno notturno. Treno notturno che a Padova ha fatto salire altre due persone nel tuo scompartimento svegliandoti e facendoti addormentare di nuovo ore dopo. Dopo che hai fatto un mezzo trasloco e seguito una lezione introduttiva bella densa. E ti domandi com’è possibile che non vedano la barba sfatta, le borse sotto agli occhi che ci manca la marca del supermercato stampata sopra da quanto son grandi e la mandibola tesa per i troppi caffè.
Però lo accetti, sei troppo euforico per contrastare qualcuno, ti senti una matricola al primo giorno di scuola e, dopotutto, lo sei.