Il governo introduce l’obbligo di registrazione sul territorio nazionale e alza le multe, la sentenza di un tribunale può invece rivoluzionare il modo in cui sono trattati gli algoritmi delle piattaforme
C’è stato un tempo in cui si diceva che la Cina sapesse solo copiare le idee altrui. Soprattutto nel settore tecnologico. Quel tempo è però passato da un pezzo, come Pechino ha dimostrato in un’ampia varietà di settori: intelligenza artificiale e armi elettromagnetiche, spazio e robotica, sistemi satellitari. C’è però anche un altro comparto nel quale la Cina è sempre più osservata anche dai suoi vicini asiatici e persino dalle democrazie liberali: quello normativo.
La vasta campagna di rettificazione lanciata da Xi Jinping nel corso del 2021 ha colpito in maniera forte i colossi digitali made in China. Senza schiacciarli, ma reindirizzandoli verso settori e investimenti ritenuti strategici dal governo. Allo stesso tempo erodendo le loro posizioni di monopolio. Il tutto attraverso una serie di nuove leggi che hanno cambiato il panorama nazionale legato ad antitrust, privacy, dati e algoritmi. Nel 2021 la State Administration of Market Regulation cinese ha trattato 175 casi di monopolio di vario tipo, con un aumento del 61,5% rispetto all’anno precedente, e ha imposto multe e confische per 23,59 miliardi di yuan (3,53 miliardi di dollari).
Ebbene, l’altro grande attore dell’Estremo Oriente sta prendendo esempio su alcuni punti dell’azione cinese. Stiamo parlando ovviamente del Giappone, iperattivo in particolare sulla limitazione del potere in possesso dei colossi internazionali, che dalla Cina sono già esclusi oppure stanno vivendo un forte ridimensionamento. All’inizio di giugno, il ministero della Giustizia di Tokyo ha avanzato la richiesta ufficiale ad alcune società di registrare la propria sede globale in Giappone. Il ministero ha inoltre dichiarato che chiederà ai tribunali di multare le società che non hanno ancora intenzione di registrarsi. La richiesta era stata avanzata a 48 aziende, tra cui Twitter, Meta e Google. E per la prima volta questi big erano stati invitati ad adeguarsi entro lo scorso marzo. Cosa che non hanno fatto.
Alla base delle pretese del governo giapponese c’è un semplice ragionamento: se le aziende digitali operanti nel paese avessero la loro sede legale in Giappone, i consumatori avrebbero più facilità a intentare cause e a presentare denunce in caso di problemi, come per esempio se ci sentisse vittime di diffamazione sui social media. I colossi internazionali provano a resistere, insistendo sul fatto di ritenere sufficiente la registrazione delle loro unità marketing con sede in Giappone. Ora Tokyo minaccia multe nettamente più salate di quelle attuali in caso di mancato adeguamento alle richieste di registrazione.
La rivoluzionaria sentenza giapponese sugli algoritmi delle piattaforme
Ma ci sono anche altri segnali sul fatto che le grandi piattaforme digitali internazionali hanno di fronte un periodo più complicato di quello passato in Giappone. Come raccontato dal Financial Times, un tribunale di Tokyo si è pronunciato a favore di Hanryumura, una catena di ristoranti BBQ in stile coreano, in una causa antitrust intentata contro Kakaku.com, gestore di Tabelog, la più grande piattaforma di recensioni di ristoranti in Giappone. La vicenda potrebbe cambiare il modo in cui le grandi piattaforme internet come Google, Facebook e Amazon operano nel paese, costringendole a rendere pubblico il funzionamento interno dei loro algoritmi. Il motivo sta nella risposta dei giudici ad Hanryumura, che ha sostenuto che Kakaku.com aveva alterato il modo in cui venivano calcolati i punteggi degli utenti in modo da danneggiare le vendite dei suoi ristoranti. Il tribunale ha condannato Kakaku.com a pagare ad Hanryumura 38,4 milioni di yen (284 mila dollari) di danni per “abuso di posizione negoziale superiore”, ma non solo: i giudici hanno chiesto a Kakaku.com di rivelare parte dei suoi algoritmi.
Un ordine che rompe un tabù che era stato inattaccabile per lungo tempo, in Giappone ma non solo: cioè il considerare gli algoritmi di una piattaforma dei “segreti commerciali” in qualsiasi circostanza. I tribunali e le autorità di regolamentazione di tutto il mondo hanno iniziato a mettere in discussione questa posizione e la sentenza giapponese potrebbe avere una eco più ampia, anche a livello internazionale. Non del tutto una sorpresa che questo accada in Giappone, visto che già nel 2021 era stata introdotta una norma che prevede la richiesta alle piattaforme di internet il funzionamento di base dei propri algoritmi. Ora però la sentenza arriva a un livello superiore e più profondo.
Il braccio di ferro è appena iniziato. E la notizia è che la partita non si gioca solo in Cina.