Secondo l’agenzia le trattative per cedere i fortunati marchi P e Mate andrebbero avanti da mesi. Ma da Shenzhen arriva una smentita
Si tratterebbe di una svolta clamorosa nell’ormai annosa vicenda del ban per Huawei: secondo quanto riferito da Reuters, una cordata di imprenditori di Shanghai che può contare sul supporto del Governo cinese sarebbe interessata ad acquisire la linea P e la linea Mate dell’offerta smartphone di Huawei. Da parte sua, Huawei è intervenuta per smentire l’indiscrezione: si tratterebbe, al contrario di quanto accaduto qualche mese fa con Honor, di una scelta che non prevederebbe la possibilità di tornare sui propri passi. Dunque c’è di che essere scettici: ma cosa sta accadendo in realtà?
L’indiscrezione di Reuters
Ecco cosa ha scritto Reuters: fonti anonime avrebbero informato l’agenzia che sarebbero in corso da molte settimane dei colloqui per valutare la cessione delle linee P e Mate di Huawei. Stiamo parlando degli smartphone di maggior successo dell’azienda cinese, compresi best-seller come il P20, il P30 o il Mate 20: sono i modelli che hanno permesso a Huawei di arrivare al secondo posto delle classifiche mondiali di vendita, di accaparrarsi fino a un terzo di interi mercati nazionali come quello italiano, insomma parliamo di marchi che hanno la stessa riconoscibilità in occidente dell’iPhone di Apple o del Galaxy di Samsung. Sono anche gli smartphone più costosi, e quindi più remunerativi, dell’intero catalogo Huawei.
In conseguenza del ban del 2019 comminato dagli USA ai danni di Huawei, tuttavia, entrambe le linee di prodotti hanno perso l’accesso al Play Store di Google: in pratica i vari Mate 40 e P40 al momento in commercio sono a tutti gli effetti degli smartphone Android, a cui manca tuttavia la possibilità di sfruttare l’ecosistema software di Google che ha fatto la fortuna di questo sistema operativo. Per questo, nonostante l’ottimo hardware, le vendite non sono decollate qui da noi in Europa (mentre sono andate piuttosto bene in Cina): Huawei ha messo in pista una piattaforma alternativa ai Google Mobile Services (GMS), la sua Huawei Mobile Services (HMS), che in pochi mesi ha fatto enormi passi avanti ma resta un prodotto ancora insufficiente a rimpiazzare l’equivalente di Mountain View in tutto e per tutto.
Dunque ecco l’idea di vendere gli smartphone per far ripartire la giostra: se i P e i Mate non fossero più marchiati Huawei si potrebbe forse riuscire ad ottenere di nuovo una licenza GMS, e con quella a bordo e mantenendo un certo livello di qualità soprattutto nel comparto fotocamera (dove Huawei l’ha fatta da padrona per anni) forse si potrebbe tornare alle fortune precedenti. Sono una serie di ipotesi, ovviamente, che non hanno alcuna garanzia di concretizzarsi: senza contare che Huawei ha investito considerevolmente sui suoi HMS, e che anche dovendosi limitare al mercato cinese domestico avrebbe comunque a disposizione un pubblico potenziale di miliardi di consumatori.
La smentita e il caso Honor
La stessa Reuters riporta anche una netta smentita giunta da un portavoce di Huawei, analoga a quella che l’azienda ha fatto pervenire ai media italiani: “Huawei ha appreso che stanno circolando voci infondate riguardo la possibile vendita dei propri brand di smartphone top di gamma. Huawei non ha alcun piano di questo tipo e resta pienamente impegnata sul business degli smartphone, continuando a offrire prodotti dall’elevata esperienza d’uso e caratura ai clienti di tutto il mondo”. Sono parole piuttosto nette, differenti dal classico no comment che avrebbe potuto lasciare la porta aperta, e che non fanno che corroborare la visione secondo cui Huawei intende comunque insistere nella creazione di un proprio ecosistema basato su un proprio sistema operativo (Harmony OS) così da trasformarsi nella terza forza di un mercato che fin qui si sono spartiti iOS e Android.
Cedere i marchi P e Mate significherebbe mettere la parola fine a questo tipo di disegno, senza contare che nel caso venisse cancellato il ban e si tornasse a poter fare affari con Google sarebbe davvero complesso ripartire da zero. Certo è che al momento Huawei ha davanti una bella sfida: deve provvedere a produrre i suoi chip Kirin, il SoC che equipaggia i suoi smartphone, e non può farlo con i suoi fornitori abituali; deve completare lo sviluppo della propria piattaforma HMS, integrando i servizi indispensabili come i pagamenti e le mappe (queste ultime sono arrivate da poco); infine, e non è banale, deve rendere credibile il debutto di Harmony OS fornendo ai consumatori la dimostrazione che un terzo sistema operativo in questo mercato è possibile.
A differenza del caso Honor, in cui si è trattato di un’operazione volta a far cassa (e che non è ben chiaro quanto sia stata trasparente: il consorzio che ha acquisito il marchio è formato anche in quel caso da una cordata di investitori cinesi, di cui non si conosce l’esatta provenienza), qui si parlerebbe di smantellare ciò per cui a Shenzhen hanno lavorato negli ultimi 5 anni e forse più: stiamo parlando di quell’ecosistema 1+8+N che vede gli smartphone al centro di un’offerta che si allarghi a moltissimi altri dispositivi connessi, idealmente uniti da Harmony OS e che dialogano tra loro tramite gli HMS. Vendere gli smartphone significherebbe tornare a occuparsi solo di infrastruttura: senza terminali su cui far crescere la piattaforma, il destino di Harmony OS e degli HMS sarebbe fatalmente segnato.
Tirando le somme, potremmo dire che questa indiscrezione di Reuters sia destinata a essere smentita dal lancio prossimamente di nuovi smartphone marchiati Huawei: certo tutto è sempre possibile, ma in questo caso la marcia indietro sarebbe veramente clamorosa.