Privacy weekly | Come ogni venerdì ospitiamo il guest post di Guido Scorza, avvocato e componente del Collegio del Garante per la Protezione dei dati personali. Un viaggio intorno al mondo su tutela della privacy e digitale
Non si può raccontare la settimana che ci stiamo lasciando alle spalle a proposito delle cose della privacy senza tributare neanche un pensiero a chi per primo ha formulato il diritto alla protezione dei dati personali. Il 18 marzo 2023, infatti, è scomparso il giurista greco, naturalizzato tedesco, Spiros Simitis, universalmente conosciuto come uno dei papà della moderna data protection. Nato ad Atene, era arrivato in Germania a 17 anni per studiare legge con il fratello Kostas –diventato poi primo ministro greco –. Giovane docente all’Università Goethe di Francoforte, Simitis ha messo a punto il testo della prima legge in materia di protezione dei dati personali in Europa, adottata dal Land dell’Assia nel lontano 1970 ed è, poi, stato garante per la privacy, sempre in Assia, dal 1975 al 1991. “Forse non è riuscito a far sì che tutti rispettassero la privacy, ma è riuscito a farla conoscere a tutti” ha commentato, in questi giorni, la stampa tedesca, nel dare la notizia della sua scomparsa. Non ha mai avuto alcun dubbio Spiros Simitis nel sostenere che la protezione dei dati è una forma di protezione della democrazia stessa. E naturalmente aveva ragione. E si tratta di una prospettiva che, raramente, è stata più attuale, più concreta, più tangibile e globalmente evidente di oggi.
Basta guardare all’audizione – ma forse sarebbe più corretto definirla pubblica udienza – di ieri, davanti al Concresso americano dell’amministratore delegato di TikTok, Schou Zi Chew e alle parole con le quali la presidente del Comitato per l’energia e il commercio della Camera dei rappresentanti ha aperto la seduta: “La vostra piattaforma dovrebbe essere vietata”. “Mi aspetto che oggi diciate qualsiasi cosa per evitare questo risultato”, ha continuato, rincarando poi la dose, “quando si festeggiano i 150 milioni di utenti americani su TikTok, si sottolinea l’urgenza che il Congresso agisca. Sono 150 milioni di americani su cui il Partito comunista cinese può raccogliere informazioni sensibili”. Rispondendo al fuoco di fila delle domande, Chew ha cercato di sottolineare l’indipendenza di TikTok dalla Cina e ha messo in risalto i suoi legami con gli Stati Uniti: “Abbiamo sedi a Los Angeles e Singapore e abbiamo 7.000 dipendenti negli Stati Uniti”, ha dichiarato. “Il punto cruciale è che si tratta di dati americani conservati su suolo americano da un’azienda americana e supervisionati da personale americano”. Sempre Chew ha affermato che “ByteDance non è un agente della Cina o di qualsiasi altro Paese”, facendo poi riferimento a tutte le misure che l’azienda ha adottato e intende adottare per risolvere i timori che il governo cinese possa accedere ai dati degli utenti di TikTok, nonché tutti gli altri rischi paventati in questi mesi, tra i quali l’incidenza nel fenomeno della disinformazione anche attraverso deepfake. Difficile prevedere come andrà a finire questa moderna sfida all’ O.K. Corral ma non c’è dubbio che sia una delle più straordinarie conferme di quel rapporto inscindibile tra le regole sulla protezione dei dati personali e la democrazia tanto caro a Spiros Simitis.
Sempre dagli Stati Uniti, arriva, inoltre, la notizia che il figlio del Presidente, Hunter Biden ha citato in giudizio un riparatore di computer del Delaware per violazione della privacy e pubblicazione di informazioni private. Quest’azione legale è l’ultima mossa di un cambiamento strategico da parte di Biden junior, mirato a respingere in modo deciso i duri attacchi da parte dei fedelissimi dell’ex presidente Donald Trump. La causa arriva infatti in un momento in cui si stanno intensificando le polemiche sugli affari all’estero che Hunter Biden ha intrapreso mentre suo padre Joe era vicepresidente. A quanto sembra, nel settembre 2019, il tecnico consegnò a Rudy Giuliani, avvocato di Trump, una pen drive con una serie di documenti chiave finiti in suo possesso nel periodo in cui Hunter Biden gli aveva affidato il suo pc per ripararlo. Giuliani ne avrebbe poi fornito una copia all’ex stratega della Casa Bianca Stephen Bannon che li avrebbe – il condizionale è d’obbligo – messi in circolazione. Una doppia conferma importante: non solo sul rapporto tra privacy, politica e democrazia che si è imposto come il tema della settimana nelle cose della protezione dei dati ma anche sull’esigenza che la cultura della protezione dei dati personali conquisti un ruolo di maggior centralità nel nostro quotidiano perché, anche un episodio di per sé sciocco come affidare un dispositivo alle cure di un riparatore, ormai significa consegnargli la nostra vita.
Ma non si è parlato solo di politica e privacy, in settimana. È un’invenzione tutta italiana il maglione che rende invisibile. A idearlo è stata Rachele Didero, co-founder della startup Cap-Able e dottoranda di ricerca in “Textile and machine learning for privacy” al Politecnico di Milano. I capi prodotti dalla sua startup riescono ad ingannare gli algoritmi delle telecamere con riconoscimento facciale grazie ai particolari tessuti utilizzati.
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