Chi surfa veloce sulle reti del web, nelle traiettorie che divorano un link via l’altro non può realizzare che per alcuni – nient’affatto pochi – il web è un luogo lento e pure faticoso, se non ostile: il 15, ma molto più probabilmente il 20 per cento delle persone si inceppa, non vede bene, non comprende, si innervosisce, va in crisi, desiste… Perché i siti non sono quel miracolo di accessibilità che appaiono, anzi: pullulano di ostacoli, di freni, di buche e sbarramenti virtuali esattamente come la realtà fisica abbonda di barriere architettoniche. E che queste barriere virtuali siano numerosissime e davvero moleste lo dimostra il fatto che gli Stati stanno mettendo a punto normative perché queste siano rimosse e il web dunque diventi, senza eccezioni, un luogo pienamente inclusivo e a tutti accessibile.
In Italia una start-up, AccessiWay, ha messo a punto un programma di intelligenza artificiale capace di bonificare il web dai suoi molteplici sbarramenti. Come ci riesce? E perché siamo ancora così restii a riconoscere questo tipo di digital divide? Ne parliamo con Edoardo Arnello, founder e direttore generale di AccessiWay, nelle cui mani la giovanissima impresa – nata da una joint venture italo-israeliana con AccessiBe, leader nel settore dell’accessibilità web – è diventata un modello, nonché l’headquarter europeo della casa madre e, dopo l’ingresso in Germania, Francia, Austria, va alla conquista di mercati più vasti.
Chiariamo, anzitutto: chi sono le persone per le quali il web rappresenta una foresta di limitazioni e, dunque, uno dei luoghi di esclusione per antonomasia?
Le persone che soffrono di ipovisione in generale, di daltonismo – che è molto diffuso, 1 maschio adulto su 7 è daltonico -, di disturbi dell’apprendimento e dell’attenzione, di epilessia, di disturbi motori, per non parlare delle persone anziane, la cui esperienza digitale rischia di essere compromessa dalla presenza di più frizioni tipiche, in un certo modo, di quasi tutte le forme di disabilità specifiche ora citate. Il punto è che negli ultimi vent’anni il 98% dei siti è stato costruito in modo non accessibile, perché il tema dell’accessibilità non è mai stato affrontato in maniera seria e sistematica: in parte perché manca la sensibilità sulla crucialità della questione, in parte perché rendere accessibile un sito comporta un costo, e poi perché si ritiene – erroneamente – che non si possa realizzare un sito accessibile che sia anche accattivante. Spesso, poi, anche quando il tema dell’accessibilità è preso in considerazione, si finisce per realizzare un sito che – in termini di struttura, forma, colore e via dicendo – possa andare incontro alle disabilità di tutti, con un approccio design for all che poi finisce, nella messa a terra, per non rispondere specificamente ai bisogni delle singole disabilità.
Ci fa capire, nella concretezza della navigazione, che tipo di barriere incontrano le persone con disabilità e dunque com’è la loro esperienza sul web?
Per esempio, chi soffre di epilessia è molto timoroso di incorrere nelle tante GIF e animazioni lampeggianti – vedi i banner promozionali, per esempio – che animano le pagine web e che, effettivamente, su soggetti fotosensibili possono indurre una crisi, anche se non necessariamente nell’immediato. Alle persone con disturbi visivi – visione offuscata, per esempio, o daltonismo – l’insieme dei colori, così come il font o la dimensione del carattere possono rendere difficile la visualizzazione: attraverso le nostre interfacce noi consentiamo, invece, di regolare il design del sito in base alle esigenze personali, ritarando le dimensioni dei caratteri, le spaziature, la saturazione e il contrasto dei colori, ma anche mettendo in rilievo i titoli. Chi soffre di disturbi dell’attenzione può facilmente cadere in crisi davanti a pagine cariche di stimoli, che il nostro programma tiene invece sotto controllo attraverso una maschera che mostra porzioni specifiche di testo. Ma le persone che più di altre soffrono l’ineguaglianza digitale sono i non vedenti e quanti hanno un disturbo motorio che impedisce di utilizzare la tastiera: la loro esperienza di frustrazione ed esclusione ne mina fortemente l’indipendenza. Se queste persone vogliono fare un acquisto su una piattaforma di e-commerce, devono delegare l’operazione ad altri, ma quel che è peggio è che devono ricorrere a un terzo se desiderano pagare un bonifico, perdendo, peraltro, un altro diritto fondamentale, quello della privacy. Insomma, noi siamo convinti che le disabilità esistono nella misura in cui esistono contesti non completamente accessibili. Un contesto pienamente accessibile rende la disabilità inesistente.
E visto che le esperienze quotidiane si spostano sempre più sul web, ecco che il legislatore è intervenuto.
Assolutamente. Esistono linee guida internazionali che definiscono i criteri di accessibilità del web: si chiamano WCAG – Web Content Accessibility Guidelines – e sono messe a punto e aggiornate continuamente da una comunità internazionale di capitani di aziende, scienziati, università, organizzazioni senza scopo di lucro costituita in origine dall’inventore del WorldWideWeb, Tim Berners-Lee. Tali linee guida rappresentano lo standard a cui le diverse legislazioni nazionali nel mondo fanno riferimento: per esempio, stabiliscono che le animazioni di un sito possano essere in ogni momento fermate, per garantire alle persone che soffrono di epilessia – come abbiamo detto prima – una navigazione al riparo da crisi. Nel 2016 l’Unione Europea, in coda agli Stati Uniti, che hanno fatto da apripista, ha definito i tempi entro i quali le piattaforme digitali degli enti pubblici, delle aziende private che fatturano oltre 500 milioni di euro e di quelle che erogano un servizio pubblico – vedi i trasporti, ad esempio – sono obbligate a diventare accessibili. E, in ogni caso, in futuro dovranno essere accessibili tutti i siti web, anche quelli delle micro-imprese.
Esistono disabilità a cui la tecnologia non riesce a dare ancora soluzioni adeguate in termini di accessibilità?
Alcune forme di disturbo cognitivo in forma grave. Diciamo, però, che nel momento in cui noi definiamo un sito pienamente accessibile agli utenti, il sito è inclusivo in forma pressoché completa. Piuttosto, metto in rilievo il fatto che accessibilità e inclusività rimangono criteri che ci si aspetta vengano adottati dai siti pubblici, in particolare delle pubbliche amministrazioni, o dai siti degli organismi che forniscono i servizi essenziali. Insomma, diamo dell’accessibilità un’interpretazione decisamente riduttiva: il senso comune fatica moltissimo ad associarle al web nella sua interezza, come se il web non fosse il luogo pubblico che, invece, è e come se bastasse rendere accessibile l’esperienza delle Poste o quella delle banche. Dimentichiamo che una persona è integrata in società e sente di vivere appieno quando può fare qualunque cosa, ovvero intrattenersi, socializzare, acquistare, uscire, condividere contenuti ed esperienze e via discorrendo e questo accade sul 95% del web, che però, ripeto presenta plurime barriere alle persone portatrici di una qualche forma di disabilità. C’è un immenso deficit di inclusività da colmare.