I siti senza banner esistono. Non vendono pubblicità proprio perché li sponsorizzano direttamente le grandi aziende. Si chiamano native advertising e brand journalism (questo giornale ne è un esempio) e non sono solo una nuova frontiera del marketing
L’onda della nuova editoria che parte da Menlo Park e Mountain View ma riguarderà presto (anche) l’Italia e chi la rivoluzione del cosiddetto brand journalism l’ha cominciata.
Il confine tra giornalismo e pubblicità è uno dei temi più dibattuti oggi nel mondo dell’editoria e della sua evoluzione digitale. Al centro del dibattito lui, Mark Zuckerberg, che ormai ci ha abituati a far parlare di sé per molto più del fatto di aver creato “uno dei tanti social network”. Una centralità acquisita non a caso, ma come esito di una precisa scelta strategica. Già oggi Facebook sembra essere di per sé, molto più che un giornale. Dai suoi utenti è vista come una fonte di notizie, dai brand come un potenziale partner capace di attrarre un pubblico sterminato e di fornire servizi e dati preziosi (grazie all’algoritmo Newsfeed) per gli uffici marketing.
L’editoria ai tempi di Facebook (e Google)
Per farla breve Facebook mira a diventare (anche) una media company, di quelle che fanno tremare un mondo dell’editoria già di per sé scosso da bilanci e andamenti non proprio incoraggianti. Ma anche un’opportunità per il mondo dei giornali che potrebbero ritrovarsi (loro malgrado?) ad essere invece il partner ideale di Facebook il cui “journalism project”, nasce dichiaratamente con la volontà di sperimentare nuovi modelli di business, lavorando insieme ai partner editoriali per trovare nuove modalità di monetizzazione nella erogazione dei contenuti.
E Zukerberg non è di certo il solo. Anche Google ha mosso i suoi passi in direzione di un interesse crescente al mondo dell’editoria. Dopo il successo del primo bando, al termine del quale sono stati assegnati 27 milioni di euro a 128 organizzazioni di 23 diversi paesi europei, tra cui 8 italiani, Google infatti ha annunciato l’apertura del nuovo bando per le richieste di finanziamento al Fondo per l’innovazione della Digital News Initiative. Il fondo, del valore di 150 milioni di euro in 3 anni, intende supportare l’innovazione nel settore dell’informazione in Europa, stimolando nuovi modi di pensare il giornalismo digitale.
I giornali che non vendono pubblicità (perché sono la pubblicità)
Sembra così che i giornalisti più integralisti già scossi dai modelli ibridi che il native advertising e i branded content avevano introdotto, debbano sempre più accettare l’idea che esiste un giornalismo diverso, che pur non tradendo mai la verità delle notizie, si apre a nuove forme di erogazione delle stesse. Un trend inarrestabile che vede però l’Italia fanalino di coda rispetto agli altri mercati in cui le barriere tra brand e giornali sono più porose e i tentativi in tal senso sicuramente più riusciti.
In Italia a circa tre anni dalla comparsa sul mercato italiano l’offerta del native advertising ha generato solo nel digitale investimenti per circa 1,2 miliardi di euro, secondo le stime del Politecnico di Milano riferite allo scorso anno, corrispondente a circa il 16% della pubblicità complessiva sul totale dei media (anche se è corretto precisare che dentro il mondo native ormai ci sono cose molto diverse tra loro). I nostri editori che in questi anni hanno sofferto la crisi della pubblicità tradizionale e le loro concessionarie pubblicitarie hanno visto in queste nuove forme di finanziamento una delle poche occasioni per proporre ai clienti nuovi prodotti.
Questi progetti nel nostro Paese sono rimasti perlopiù a livello embrionale assumendo forme tra le più diverse, tra cui la più riuscita è stata senza dubbio quella dei progetti editoriali online (escludiamo quindi quanti utilizzano il cartaceo anche con tirature speciali fino a un milione di copie) direttamente sponsorizzati da grande aziende mosse dall’interesse primario di promuovere contenuti di valore sul settore di proprio interesse. D’altronde oggi l’attività di comunicazione, PR e promozione dei brand negli ultimi anni si sta concentrando proprio sui contenti da offrire non solo ai potenziali clienti ma all’opinione pubblica.
I siti italiani di brand journalism e native advertising
Tra i pionieri in questo ambito, se si escludono i dipartimenti interni alle testate come quella del Corsera in cui si analizzano per l’appunto solo native adv e branded journalism, sono diventate rilevanti in Italia tre prodotti editoriali: CheFuturo! che per quasi cinque anni ha rappresentato uno dei primi esperimenti, un blog sponsorizzato da CheBanca con l’obiettivo di farne il punto di riferimento in Italia per le tematiche legate all’Innovazione, alle startup, al movimento dei maker e ai Fablab. Tutto nato dall’intuizione della banca che si è rivelata quella giusta. E dalla stessa redazione di CheFuturo!, 2 anni dopo, è nato proprio il giornale che state leggendo, StartupItalia!, che fornisce notizie e approfondimenti sull’ecosistema delle startup italiane nella sezione News e che si anima poi di 6 verticali con diverse aree tematiche, ciascuna avente come riferimento un importante brand (Tim, Ford, NTT Data, Cisco, tra gli altri) che ha saputo investire nel content marketing: Smartmoney, sul futuro dei soldi e il fintech; Ischool, sull’innovazione in campo educational; TheFoodMakers per coniugare cibo e tecnologia; The Next Tech, sulle nuove tecnologie che cambiano il mondo; Open Innovation, che racconta le partnership tra grandi aziende e startup e infine il verticale dedicato alla Cyber Security.
Centodieci, il magazine online che presenta tutte le iniziative e gli eventi del progetto e offre uno spazio di condivisione culturale attraverso un blog, con interventi su temi di innovazione, tecnologia, valori trasversali. Ancora una volta il “brand” è una banca, Banca Mediolanum, che ha voluto un’organizzazione in cinque categorie: ispirazione (brevi e significative testimonianze di personaggi d’eccellenza), innovazione (storie riguardanti le innovazioni della rete), creatività (suggestioni che possano influenzare anche le attività professionali), formazione (strumenti mirati all’ apprendimento online e offline) e tecnologia (contenuti dedicati all’evoluzione dei nuovi strumenti che migliorano la produttività).
Forward Magazine di Nastro Azzurro. Il noto marchio di birra ha realizzato un prodotto editoriale che non si riferisce solo alle news del proprio settore, ma che parla di creatività e nuove tendenze nei settori del cinema, del design, del food e del fashion.
Corporate blog, quando i contenuti li fa l’azienda
Oltre agli “editori” per sé le grandi aziende si sono orientate al brand journalism mettendoci la faccia, pardon la penna, in prima persona. Si tratta di una vera e propria rivoluzione perché le aziende non sono più vincolate ai media tradizionali, intermediari di informazioni e messaggi pubblicitari attraverso carta stampata, frequenze radio e altro. Ogni brand può diventare un editore, rivolgendosi direttamente al proprio pubblico attraverso social e altri canali fino ad arrivare ad un vero e proprio magazine aziendale nella maggior parte dei casi blog online. È il caso dei corporate blog che diventano luoghi di discussione e spunto per animare le conversazioni online attirando così lettori e potenziali clienti.
Swide, il magazine di Dolce&Gabbana ha conquistato milioni di fashionist utilizzando lo stesso approccio anche se con un maggiore focus sul mondo della moda. Il “luxury magazine” della casa di moda è diviso in sezioni. Il lusso, così, viene declinato in “Style & Fashion”, “Beauty”, “Sport & Man”, “Celebrities”, “Food & Travel”, “Art & Culture”. Ci sono poi gli spazi dedicati alle gallery e ai video, un formato sempre più imprescindibile per catturare l’attenzione dei lettori/consumatori. Tra i pilastri del brand journalism dei contenuti visuali, come le immagini, che permettono di esprimere meglio concetti altrimenti diffusi soltanto con del testo e che permettono che la storia venga meglio fruita ed assorbita.
Market Revolution, definito l’Inspiration Blog da Futureberry, la società di consulenza che lo edita, raccontando l’impatto dei trend di consumo e nuovi fenomeni di business. I contenuti spaziano dalla tecnologia, ai social network, ai case study sui principali successi di chi ha saputo introdurre innovazioni disruptive sul mercato.
I blog tematici delle startup
L’assuefazione del consumatore ai messaggi pubblicitari fa nascere l’esigenza di un nuovo modo di raccontare la storia di un brand. Questo vale tanto per le grandi aziende quanto per le startup. Non stupisce dunque che siano sempre più le startup abbiano iniziato a ritenere i contenuti fondamentali per comunicare alle proprie community di riferimento e per ingaggiare nuovi clienti. Dal corporate allo startup blog.
Anche qui settori diversi, modelli diversi ma unico obiettivo di orientare le scelte del cliente offrendogli un servizio (di informazione) ancora prima che questi abbia comprato il servizio in sé. Lo storytelling d’impresa infatti mira a racconta storie collocate nell’universo di riferimento di un’azienda, anche senza che questa ne sia protagonista esclusiva con uno spettro di argomenti che può essere più o meno ampio rispetto al settore di riferimento.
Moneyfarm, ad esempio ha lasciato il focus primario sulla finanza e le sue evoluzioni tecnologiche e ha dato così vita ad uno “startup blog” che approfondisce principalmente i temi di investimento, news sui mercati e consigli per risparmio
Musement, l’app che serve a trovare cose da fare, e a prenotarle in giro per il mondo è un altro esempio perfetto di come puntare sui contenuti sia una parte integrante e fondamentale della strategia di growth hacking di una piccola azienda. Il blog offre consigli ai viaggiatori non solo sulle località, ma anche sui cibi, le storie e le principali novità di tutte le destinazioni
Soundreef, l’alternativa digitale alla Siae per la rendicontazione dei diritti d’autore come ultimo caso, offre spunti interessanti non solo sugli artisti che scelgono il servizio ma sull’industria musicale in generale tenendo così aggiornati tutti gli appassionati e generando cos’ attenzione sui valori di cui il brand si fa portavoce.