Seconda parte della storia di Tim Cook, Ceo che affronta licenziamenti e scandali, e guida Apple alla valutazione record di 1000 miliardi
«Negli affari, come nello sport, la stragrande maggioranza delle vittorie si decide prima che comincino i giochi. Difficilmente, si può controllare la tempistica con cui si presentano le opportunità. Quello che possiamo fare è controllare la nostra preparazione», è una frase di Tim Cook che racconta bene la mentalità da maratoneta con cui ha affronta la sfida in Apple.
La frase è contenuta nel libro di Leander Kahney dal titolo, Tim Cook: il genio che ha cambiato il futuro di Apple, che racconta la vita e la carriera del Ceo più potente al mondo.
Abbiamo raccontato qui la prima parte della storia.
In questa seconda parte, spostiamo le lancette del tempo al marzo del 1998, quando all’età di 37 anni, Tim Cook entra in Apple come nuovo direttore operativo, con uno stipendio base di 400mila dollari e un bonus di mezzo milione. Soldi ben spesi per quella che presto si rivela la migliore assunzione che Jobs abbia mai fatto in Apple.
Tim, mago dell’operatività
Come direttore operativo, Cook eredita un bel casino. Per ammissione di uno dei manager storici dell’azienda, Greg Joswiak, “Apple era pessima a gestire i costi, le giacenze di magazzino e le merci”.
Appena arrivato, incontra i membri del reparto per capirne i pregi e difetti, con il supporto di Jeff Williams, ex IBM, che vuole fortemente in azienda (oggi Williams ricopre la carica di direttore operativo).
Così come Jobs ha ridotto il numero dei prodotti, allo stesso modo Tim seleziona pochi fornitori con cui lavorare e li visita tutti. Nella sua gestione, cerca di esternalizzare il più possibile, appaltando la produzione a partner esterni (es. LG Electronics per iMac G3).
Sono operazioni necessarie, specie in un’azienda che era stata sull’orlo del fallimento proprio a causa delle giacenze di magazzino, costate milioni di dollari in inventario.
In un discorso ai suoi collaboratori, Tim paragona le giacenze di magazzino alle derrate alimentari. Se scadono, insomma, hai un grosso problema. Nel libro, proprio su questa questione, Kahney scrive:
«Cook odiava le giacenze di magazzino, con lo stesso ardore con cui Jobs non sopportava un cattivo design».
Per gestire le giacenze in modo efficace bisogna essere maghi nel prevedere i volumi di vendita e in questo Apple ha avuto fortune alterne fino a quel momento. Tim decide di investire in un sistema di pianificazione delle risorse di impresa, realizzato da SAP. Noto come ERP, si collega ai sistemi IT dei fornitori, dagli stabilimenti di assemblaggio, fino ai rivenditori. Un meccanismo “complesso” che offre, tuttavia, una visione d’insieme dell’intera filiera produttiva.
Grazie a ERP, la permanenza delle merci nei bilanci dell’azienda si riduce da alcuni mesi a pochi giorni e il valore dei MAC non venduti nei magazzini, passa da 400 milioni di dollari a 78.
100 milioni di dollari per prenotare aerei in anticipo
ERP non è l’unica idea geniale che mostra il talento di Tim. In un’altra occasione, per il lancio dell’iMAC sul mercato, decide di prenotare in anticipo una serie di trasporti aerei, del valore di 100 milioni di dollari, per garantire una spedizione sicura e puntuale durante le feste natalizie. Un’idea che costringe i rivali, come Compaq, a una corsa contro il tempo per rivedere le loro strategie organizzative durante le vacanze.
Sotto la sua gestione, inoltre, rafforza i rapporti con Foxconn, la ditta di Taiwan che conta oggi su 1,3 milioni di dipendenti e 12 fabbriche in Cina. Una mossa che lo esporrà, come vedremo, a molte critiche per le condizioni disumane dei lavoratori.
Visti i risultati ottenuti, riceve un altro incarico: nel 2002, gli viene affidata la gestione anche delle vendite. Molti analisti considerano questa nomina come la preparazione al ruolo di Ceo. In Apple, fino ad allora, ogni manager ha un ruolo e una chiara specializzazione, tranne lo stesso Jobs e Cook.
Tim ha sempre dichiarato di non voler imitare Jobs ed è riuscito a trasferire in Apple il suo stile, soprattutto nel rapporto con i collaboratori e il management. In altre parole, se Jobs è capace di urlare “stronzi senza palle” ai produttori di chip quando commettono errori, Tim è un leader diverso, che alza raramente la voce. Eppure, anche lui pretende il massimo dal suo staff. Due aneddoti, raccontati nel libro di Kahney, la dicono lunga su come si interfaccia ai suoi collaboratori.
Nel primo, Cook chiede a un suo collaboratore, “Cosa c’è che non va sulla colonna D, riga 514?”. In un altro, invece, Kahney racconta di quando, in una riunione con i manager del dipartimento operativo, sorge un problema con un fornitore cinese: “Così non va, qualcuno deve andare lì a risolvere la situazione”, sbotta Tim. La riunione prosegue per un’altra mezzora, fino a quando, rivolgendosi a Sabin Khan, uno dei dirigenti esecutivi più alti in grado, gli dice, serio: “E tu, cosa ci fai ancora qui?”. Pare che a quel punto Khan si sia alzato in fretta e furia e abbia preso un volo “sola andata” per la Cina, senza neanche passare per casa a prendere la valigia.
Due episodi che raccontano due valori imprescindibili che Tim trasferisce a chiunque lavori con lui: l’attenzione a ogni particolare, e la tempestività nella risoluzione dei problemi. Come Ceo darà ancora maggiore diostrazione di possedere entrambe queste qualità.
Tim come Ceo e la gestione di licenziamenti e scandali
I primi mesi come nuovo amministratore delegato sono sofferti per tutti. D’altronde è naturale quando il tuo predecessore è un uomo dal carisma e dalla vision di Steve Jobs e l’azienda che guidi è la più amata al mondo.
I primi mesi, Tim paga soprattutto la poca esperienza nell’individuare i talenti per arricchire lo staff. La prima assunzione non va a buon fine. Per rilanciare gli Apple Store, pensa di puntare su John Browett, che ha fama di essere uno straordinario venditore di prodotti elettronici. Quest’ultimo taglia il personale per aumentare i guadagni. Mossa che, tuttavia, riduce la qualità del servizio. Browett finisce per scontentare tutti: Apple non è solo prodotti da vendere, ma un modo di intendere la vita.
Tim fa mea culpa e licenzia Browett, prima che la situazione degeneri. Altra questione, invece, è l’allontanamento di Scott Forstall, la mente dietro il MAC OSX, sistema operativo che ottiene uno straordinario successo. Tra i due non corre buon sangue, Forstall era tra i papabili per la carica di Ceo dopo Steve Jobs, sponsorizzato da alcuni membri del consiglio d’amministrazione.
Forstall è ambizioso. È soprannominato, in azienda, mini Steve per la sua volontà di assomigliare a Jobs (aveva anche comprato la stessa macchina del fondatore di Apple). I rapporti tra Cook e Forstall arrivano ai ferri corti in occasione del disastro di web mapping, software promosso da Forstall con l’ambizione di vincere la concorrenza di Google Maps.
Dopo le critiche all’applicazione (il New York Times lo definisce il software più imbarazzante creato da Apple), Tim chiede a Forstall di scusarsi pubblicamente, ma lui declina il suo invito.
In mancanza di scuse formali, Tim stesso scrive una lettera agli utenti di Apple dove si scusa per quell’incredibile fallimento. Segue il licenziamento di Forstall che mostra di non essere adatto alla vision che Tim ha di Apple: un’azienda senza più prime donne, dove il team vince sugli egoismi dei singoli.
«I cambiamenti del gruppo dirigenziali sono pensati per aumentare un approccio collaborativo in azienda», spiega all’indomani del licenziamento di Forstall. Più chiaro di così.
I licenziamenti (e le critiche ricevute soprattutto dopo la cacciata di Forstall) sono una prova dolce rispetto agli scandali che Tim si trova ad affrontare negli anni a venire. Nel 2012, ABC trasmette uno speciale su Foxconn, il principale fornitore di Apple. Il mondo conosce il degrado in cui vivono i lavoratori asiatici, costretti a turni di 12 ore, per pochi dollari e a una vita da carcerati nei dormitori dell’azienda. Quello che è più grave, durante il servizio emerge il dramma suicidi: ben quattordici, tutti imputabili alle condizioni disumane a cui sono sottoposti gli operai.
Tim sa bene che il problema non può essere eluso: come ne esce l’immagine progressista che Apple vuole trasmettere? Allora si dà da fare e interpella la Fair Labor Association, celebre organizzazione no profit che lavora per tutelare i diritti dei lavoratori in tutto il mondo.
La FLA viene incaricata da Apple di verificare le condizioni delle fabbriche di Shenzhen e Chengdu e stila un rapporto con 360 elementi di azioni correttive, di cui sono state completate circa 250. Per alcuni, l’iniziativa è solo un palliativo che non risolve il problema alla radice: gli abusi sul lavoro si verificano perché il modello degli appalti premia chi fa il prezzo più basso. Per altri analisti, l’opera di Tim rappresenta comunque un inizio, in una direzione più equa per i lavoratori asiatici, soprattutto in mercati come Cina e India.
La questione ambientale
Meno opinabili sono i risultati ottenuti in materia di politiche ambientali. Quando Tim diventa Ceo, Apple ha il punteggio più basso nel Clean Energy Index, così come nel Coal Intensity, due indici che misurano l’impatto ambientale delle più grandi aziende al mondo. Di fronte alle critiche di GreenPeace, soprattutto per la presenza di PVC nei prodotti Apple, Tim anche questa volta sceglie la via della risolutezza.
Assume Lisa Jackson ai vertici dell’azienda: quattro anni prima, sotto la presidenza Obama, la manager è stata a capo di EPA, l’agenzia governativa per la protezione ambientale. L’assunzione è la risposta più forte che Cook potesse dare alle critiche. Con il solito approccio pragmatico, Tim chiede a Lisa di rispondere a tre domande, “che cosa Apple sta sbagliando, cosa fa bene, e cosa può fare meglio?”.
Sotto la sua direzione, Apple si è impegnata nell’eliminazione del pvc dai suoi prodotti e, tramite accordi con l’azienda First Solar, a costruire impianti solari in California e in Cina: oggi gran parte delle strutture aziendali (date center, negozi, uffici e il gigantesco Apple Park) sono alimentate quasi del tutto da fonti rinnovabili.
Altro scandalo da cui Tim ha saputo uscire a testa alta è quello della strage di San Bernardino, sparatoria in un centro disabili in cui perdono la vita più di 14 persone. Durante le indagini per scoprire i colpevoli, l’FBI chiede a Apple di garantire l’accesso allo smartphone di uno dei suoi clienti.
Per farlo, l’azienda avrebbe dovuto fornire una backdoor, ovvero una porta secondaria di accesso, per accedere alle info del dispositivo. Un’operazione che richiede la riscrittura del codice.
Tim sa bene che cambiare il sistema operativo è rischioso poiché avrebbe messo a repentaglio la sicurezza (e la privacy) di centinaia di milioni di utenti Apple nel mondo: la backdoor sarebbe potuta essere facilmente intercettata e usata da criminali informatici.
Il Ceo di Apple si trova di fronte a una scelta decisiva, mentre ha contro gran parte della stampa, che si chiede perché Apple difenda un presunto terrorista, e i tweet al veleno di Trump, allora candidato alla Casa Bianca.
Tim, mostrando doti di abile comunicatore, sulle quali pochi avrebbero scommesso, decide di mostrarsi di più sulla stampa e in tv e spiegare le sue ragioni, diventando così un paladino della privacy. La storia ha un lieto fine: l’FBI riesce a sbloccare il telefono senza una backdoor. Cadono così le accuse a Apple e al suo Ceo, che dimostra al mondo di avere una fermezza e un coraggio fuori dal comune.
Il migliore Ceo di sempre?
Il libro di Kahney termina con un interrogativo e con un confronto tra Jobs e Cook, dal quale noi vogliamo sottrarci. È un esercizio stilistico poco utile confrontare la grandezza di due persone, che a loro modo, hanno dimostrato di essere due fuoriclasse. Jobs è un Ceo unico nel suo genere, come lo è oggi Cook.
Quello che invece secondo noi va sottolineato è che impegno e talento non sono due categorie anteposte, ma sono due facce di una stessa medaglia: a cosa serve un grande talento senza un impegno costante? E a cosa serve un impegno costante senza una punta di talento?
Di talento e impegno, Cook ne ha mostrato tanto anche nell’area più sensibile per l’azienda, quella della creazione di nuove linee di prodotto. Durante il suo mandato, è stato lanciato l’Apple Watch, che molti descrivevano come un bel giocattolo e che oggi fattura più dell’intero comparto dell’orologeria svizzera (ne sono stati venduti circa 50 milioni di esemplari). I Watch contribuiscono a fare di Apple l’azienda leader nel settore wearable. Gli AirPods e le cuffie Beats si rivelano altri successi planetari, come l’introduzione dello smartspeaker HomePod, altro mercato destinato a superare i dieci miliardi di dollari l’anno. Senza contare la crescita di Apple Pay e i nuovi progetti in cantiere, come Apple Car, che potrebbero portare Apple a invadere l’automotive, diventando la vera alternativa a Tesla.
L’innovazione è coincisa poi con il raggiungimento di straordinari traguardi commerciali, come la capitalizzazione di 1.000 miliardi, che Apple ha ottenuto per la prima volta nella sua lunga storia.
Qual è il bilancio dell’avventura di Cook in Apple e se ha vinto la sua sfida, lo lasciamo raccontare a Al Gore, che dal 2003 è membro del CDA di Cupertino. Giudicando l’operato di Cook, Gore scrive:
«Difficile immaginare una sfida più ardua che succedere al leggendario Steve Jobs come CEO di Apple. Eppure Tim Cook, figlio di un operaio navale e di una casalinga dell’Alabama, non ha sbagliato nulla. Con la sua pacatezza, la sua genuina umiltà e la sua forza tranquilla, questo cinquantunenne immerso nella cultura Apple ha difeso con le unghie e con i denti l’eredità di Jobs, portando l’azienda più preziosa e innovativa del mondo a nuove vette, mentre al contempo ha attuato i necessari cambiamenti organizzativi con intelligenza e senza traumi. Ha impresso in modo indelebile il suo stile dirigenziale in tutti i settori, dalla gestione dei suoi complessi meccanismi interni alla creazione di nuove tecnologie «follemente eccezionali» e di prodotti dal design rivoluzionario».
Alla luce dei fatti, come non condividere ogni parola?