Per questo primo appuntamento del 2024 con i protagonisti del venture capital intervista ad Augusto Coppola, cofondatore di Cloud Accelerator, veicolo di investimento VC per startup pre-seed. «Il nostro focus è l’automazione. Siamo agnostici sul modello di business e sulla industry»
Esperienze, competenze e schiettezza. Qualità che colpiscono dopo i primi minuti di una sua presentazione. Quello che ha portato Augusto Coppola al Venture Capital è un percorso articolato. Cofondatore di due startup di sviluppo software, Managing Director di LVenture Group, holding di investimento in startup digitali, presidente di InnovAction Lab e docente di Digital Entrepreneurship. L’innovazione come forma mentis, perché ciò che fa la differenza è capire come anticipare i trend e affrontare i problemi nuovi, quelli che ancora si devono presentare. Un insegnamento utile a startupper e investitori, ma che non tutela dal fallimento, visto che «nei mercati più favorevoli, la probabilità che un’attività fallisca è del 50% dopo cinque anni». E di fallimenti professionali come occasione di riflessione, Coppola è ben disposto a parlarne nella sua presentazione “Il Segreto del mio insuccesso”. La competizione è una sfida quotidiana, che solo i team più affiatati sono in grado di affrontare.
Come si fa early stage VC in Italia?
Queste sono le fasi in cui le startup cercano di ottenere una validazione dal mercato, per capire se il loro prodotto ha valore. Per la mia esperienza, ci sono due criteri da seguire: valutare la qualità del team e comprendere se quello che cerca di risolvere è un problema nuovo. Bisogna valutare se le persone hanno competenze, determinazione e disciplina per concretizzare il progetto. Non c’è una risposta netta per comprendere se il team funziona: la parte affascinante di questo lavoro è cercare di capire chi hai di fronte. Per quanto riguarda il problema, la questione va oltre la tecnologia. Queste sono le startup che ancora non hanno un prodotto completo. Il punto è capire se una startup sta cercando di risolvere un problema nuovo, che ancora nessuno vede, o se sta solo affrontando un problema vecchio in modo nuovo. Questo per capire se si riesce a generare un valore di mercato chiaramente percepibile dai clienti potenziali.
Come si trovano queste startup?
Hackaton e programmi di incubazione universitari sono i primi posti dove cercare. È utile essere attivi sui social giusti, con temi pertinenti. E poi si fa tanto networking. Quello del venture capitalist è un mestiere fatto di relazioni, dove la credibilità è essenziale. Col tempo, sono le proposte a raggiungere noi. Oggi l’innovazione riguarda anche il lavoro dei VC: iniziano ad apparire strumenti di ricerca online basati sull’intelligenza artificiale. Per chi fa scouting, è sufficiente impostare alcune parole chiave per crearsi una lista giornaliera di possibili candidati da valutare e contattare tra le startup che hanno già un sito attivo.
Qual è il ruolo dell’investitore?
L’investitore fa tre attività: firma assegni, fa domande, apre porte. Io ho fatto lo startupper per dodici anni e un’idea di come funzionano queste imprese nella fase iniziale me la sono fatta. E l’ho anche implementata come Managing Director di Luiss Enlabs. Mi sono convinto che, almeno in Italia, le startup early stage abbiano soprattutto bisogno di qualcuno che faccia domande: questo serve a creare relazioni e fiducia reciproca. Ai nuovi team serve ad avere una visione critica su ciò che fanno.
Lei ha definito l’Open Innovation una giostra, come mai?
L’Open Innovation connette imprese e startup, ed è una buona opportunità per le startup B2B. Questo approccio rischia però di non portare risultati concreti se le aziende non riflettono su perché farla e su come farla al meglio. Molte di queste iniziative si fermano a qualche annuncio e poco altro. Va detto che questa implementazione è difficile perché startup e imprese hanno due filosofie completamente diverse. Le startup seguono un approccio lean, con procedure trial-and-error da cambiare in tempi brevi. Una grande azienda che facesse questo perderebbe clienti al secondo errore. Sono davvero due impostazioni differenti: è questo che rende la cooperazione difficile.
Lei ha parlato del problema dell’automazione in settori come la finanza
La questione è avere un livello accettabile di automazione. È positivo che i processi siano ibridi: non è detto che una completa automazione sia la soluzione a tutto. Il problema è che ci sono ancora troppe mansioni che si riducono a fare da ponte tra diversi gestionali che non comunicano tra loro. Le faccio un esempio: arriva una fattura da un cliente estero. Si scarica l’allagato dalla mail, si controllano i campi e si verifica se il cliente è registrato in anagrafica; se non è censito, va trovato l’ordine. Sono processi poco strutturati e con una digitalizzazione insufficiente. Automyo, una delle nostre startup, si concentra su questo problema: integra il flusso di lavoro in modalità no-code, per favorire l’automazione dei processi tra diversi software aziendali. Questa è una buona soluzione che, ad esempio, può trovare applicazioni nell’onboarding dei nuovi clienti bancari, dove i dati e i documenti richiesti sono diversi.
Sembrerebbe che il late stage sia il punto debole del VC italiano: come si attirano gli investitori stranieri?
È vero che la situazione sta migliorando e abbiamo visto i primi unicorni, ma nel 2023 si è registrata una raccolta superiore al miliardo di euro, concentrata su alcuni grandi round e non molto diversa rispetto a quella di tre anni fa. Siamo ancora a dimensioni molto ridotte. Quello italiano è un mercato atipico e poco comprensibile per gli stranieri. Fin tanto che la startup opera solo sul mercato nazionale, la sua validazione non è ritenuta rilevante per l’estero. Gli investitori stranieri sono dissuasi dalle nostre normative, dai bilanci, e anche da come funzionano i nostri mercati. Altro discorso è se c’è una prima forma di internazionalizzazione, anche solo nei Paesi europei più vicini. In questo caso, il valore della startup inizia ad accrescersi perché segnala agli investitori che la capacità di scalare c’è. Lo si può dire così: un euro da un investitore vale un euro. Quello che ti dà un cliente ne vale due. Se il cliente è estero, allora un euro ne vale quattro.