50 anni, donna e non ha una forte padronanza con le lingue straniere: ecco il profilo dell’insegnate “local” secondo il settimo rapporto dell’Osservatorio sull’Internazionalizzazione delle scuole
Cinquantenni, di ruolo, prevalentemente donne, con più di 20 anni di insegnamento alle spalle e la lingua inglese poco conosciuta. Ecco il profilo dell’insegnate “local” che, secondo il settimo rapporto dell’Osservatorio sull’internazionalizzazione delle scuole, è presente nella maggior parte degli istituti italiani. Una fotografia scattata dagli stessi docenti che hanno dato una bella insufficienza alla scuola in termini di apertura verso l’esterno. E le scuole internazionali? I dati raccolti dalle 480 interviste fatte ai professori e ai 63 dirigenti di istituti di diverse zone geografiche d’Italia, ci riconsegnano l’immagine di una scuola legata ancora alla tradizione, incapace di rinnovarsi, restia al cambiamento come la maggior parte dei docenti.
“Ancora nel 2015 – spiega il dossier presentato giovedì mattina dalla Fondazione Intercultura, al ministero dell’Istruzione – la scuola secondaria di secondo grado non può definirsi votata all’internazionalizzazione. Secondo i docenti non merita la sufficienza piena su nessuno degli aspetti analizzati”. Gli insegnanti bocciano la capacità di accoglienza e valorizzazione degli studenti stranieri, il loro grado di insegnamento delle lingue, la capacità di formare cittadini davvero europei, l’apertura a collaborazioni con scuole estere, il sostegno ai programmi di mobilità individuale degli studenti. Ancora più grave il voto che si danno (un 4,2) riguardo la conoscenza delle lingue: il 57% la valuta media o medio/bassa.
Dall’altro canto a guardare i dati raccolti dalla ricerca, abbiamo a che fare con solo il 18% di professori che ha investito nella formazione internazionale, attraverso esperienze come l’insegnamento all’estero o le collaborazioni con altri docenti di altri Stati. Uno scarso 22% di prof ha seguito percorsi di lingua in maniera sporadica e solo il 37% è stato all’estero per motivi professionali prima di salire in cattedra: pochi quelli che hanno fatto l’esperienza dell’Erasmus (10%), della laurea o del master all’estero (6%). La fetta più grande (60%) non è mai stata fuori dall’Italia per questioni legate alla propria attività lavorativa.
Un “DNA” che si ripercuote anche sulla vita quotidiana in classe: i docenti global hanno un approccio improntato alla formazione continua; un maggior ricorso ai lavori di gruppo e una buona dimestichezza nell’utilizzo delle nuove tecnologie per essere al passo con i tempi.
Migliora, invece, la situazione dal lato degli studenti nonostante i loro docenti: la mobilità dei ragazzi che studiano si sta affermando sempre più e coinvolge anche i professori che si rendono conto del limite della loro arretratezza in questo settore. Non è forse un caso che sono i docenti “local” più di quelli “global” a spronare i propri studenti a non concentrarsi sulla meta: il 19% sostiene che qualsiasi Paese va bene, l’importante è fare l’esperienza. Anzi per loro è meglio un luogo dalla cultura diversa dalla nostra, tant’è che consigliano in misura minore, rispetto ai colleghi globetrotter i Paesi europei e quelli anglofoni privilegiando i Paesi emergenti.