Il report di Atomico mette a fuoco la situazione nel continente. Crescono i VC, ma la diversity è ancora scarsa. In Italia? “C’è il talento ma mancano fiducia e capitali”
Tra Europa e venture capital è, finalmente, la stagione dell’amore. Di più. L’occasione per tirare le somme è la presentazione del rapporto Tech in Europe 2019 di Atomico, fondo globale che negli anni scorsi ha investito in aziende di primissimo piano come Skype, Gympass, ofo. Il report è stato presentato questa mattina a Helsinki nel corso di Slush (che ha collaborato assieme a Orrick), tra i più interessanti eventi mondiali dedicati a startup e tecnologia. I dati sono di Dealroom.
Startup in Europa: “Una nuova età dell’oro”
“Sembra che stiamo entrando in una nuova età dell’oro – afferma Sonali de Richer, partner di Accel, venture capital californiano con sede a Palo Alto. “Nel continente ci sono sempre stati tecnologia e inventiva di livello mondiale – prosegue la manager – ma la qualità del talento, il livello di ambizione e la disponibilità di capitali oggi si collocano su tutt’altra scala rispetto al passato”. Cominciano a intravedersi anche i mega round fino a poco fa caratteristici del mercato americano e, più recentemente, asiatico. Il 36% di tutto il funding raccolto, raccontano i numeri, arriva da accordi che valgono oltre 100 milioni.
In testa alla classifica degli investimenti a partire dal 2015 (vedi grafico sotto) c’è il Regno Unito. Seguono sul podio – ben distanziati – Germania e Francia. L’elenco prosegue con Svezia, Spagna, Svizzera, Olanda.
Guardando ai settori industriali, a far la parte del leone ci sono il fintech e il ramo dei software aziendali, ma si piazzano bene anche marketing, food e salute. Ben distanziati seguono travel, security e robotics, oltre a media e real estate.
Investimenti totali in startup dal 2015
Tech in Europe: cambia il ruolo dell’imprenditore
L’insuccesso? È un punto di partenza nel mondo dell’innovazione. Se il mercato comincia a correre, si evolve anche la figura dell’imprenditore. La maggior parte di chi fonda un’azienda è al primo tentativo, ma – racconta l’indagine – è in aumento la quota dei seriali. E il legislatore comincia a tenerne conto: sono già diversi i paesi europei che hanno cambiato approccio nei confronti del fallimento. Anche l’Italia si è dotata recentemente di un codice delle crisi di impresa che, tra le nuove caratteristiche, abolisce il termine per evitare lo stigma. Un percorso che fa seguito a quello avviato da Francia e Spagna.
I capitali? Sono per pochi, e la diversity è ancora scarsa
Non manca qualche nota stonata. Nonostante gli investimenti da record, molti founder ritengono che sia diventato più difficile raccogliere capitali in Europa rispetto all’anno precedente. I più ottimisti sono quelli che dirigono imprese cresciute oltre i 100 dipendenti. I soldi, in pratica, arrivano a chi li ha già. L’Europa prova a metterci una pezza, annunciando 100 miliardi di investimenti, mentre la Francia crea un fondo da cinque. Vedremo se avranno impatto.
La diversity, parola chiave del 2019, è ancora scarsa, sia in termini di genere che di etnie. La maggior parte dei founder sono uomini caucasici, cioè bianchi; le donne aumentano in UK e Irlanda, ma si attestano su livelli bassi in Francia, Benelux e sud Europa. La buona notizia è che in Europa meridionale è sorprendentemente alta la percentuale di round di finanziamento portati a casa da team femminili o misti.
Un quarto degli imprenditori sono “migranti” economici, persone che hanno scelto di avviare un’attività in un paese diverso da quello di origine. Anche gli italiani di successo all’estero, lo sono, con buona pace dei sovranismi di tutti i colori. La percentuale aumenta fino al 50% in UK, mentre si ferma attorno al 10% nei paesi dell’est, più chiusi.
Il mito dell’imprenditore con pochi mezzi, infine, si rivela per quello che è: un mito. L’81% degli intervistati – chiarisce lo studio – viveva bene prima di cominciare, con denaro a sufficienza anche per pagarsi qualche extra; solo il 13% riusciva a far fronte esclusivamente alle spese di base, mentre il 6% faticava a sostentarsi. “Dare per scontato che tutti i founder abbiano accesso a fondi di amici e familiari (le famose 3F: family, fools and friends, ndr) mi sconcerta” commenta Deborah Okenla di YSYS, community londinese attenta alla diversity partita come un gruppo Whataspp e progressivamente ampliatasi. Una visione controcorrente, la sua, anche su temi caldi come la parità di genere: “Le iniziative per sole donne nell’ecosistema britannico delle startup – raccontava tempo fa in un’intervista a Forbes – hanno contribuito a marginalizzarle ed escluderle ulteriormente, passando il messaggio che la nostra comunità è ancora divisa”.
Il caso italiano: tanto talento, mancano fiducia e investimenti
Il caso italiano presenta qualche anomalia. Nonostante la tendenza generale, il nostro paese arranca e si piazza dietro a stati molto più piccoli. Perchè? “I vostri connazionali che abbiamo intervistato ci dicono che burocrazia, legislazione restrittiva sul lavoro, assenza di un hub centrale per le startup e, finora, scarsità di capitali hanno mantenuto il movimento nelle retrovie – rileva Tom Wehmeier, Head of Research di Atomico, che ha curato il report – Ma ci sono segnali incoraggianti, come l’annuncio di un fondo nazionale per l’innovazione: e, del resto, il 2019 è stato un anno record”. I fattori chiave per generare investimenti in un paese? “Sono tre: capitale, talento e fiducia. L’Italia ha il talento, ma difetta negli altri. Un esempio? Ha la settima comunità di sviluppatori d’Europa, ma il capitale investito per singola risorsa è tra i più bassi d’Europa”.
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