Una fotografia dell’ecosistema italiano partendo dai 200 round chiusi dal 2017 ad oggi
Abbiamo raccolto i dati di oltre 200 round di investimento in startup italiane, più o meno tutti quelli realizzati fra gennaio 2017 e ottobre 2019 in Italia, analizzando tutte le principali fonti di dati e informazioni sull’argomento, database di settore, quotidiani e blog. L’analisi non comprende, se non marginalmente, le campagne di equity crowdfunding, perché, anche se numerose e in forte crescita, non sempre incorporano aspettative di rischio e rendimento coerenti con quelle tipiche delle startup.
Abbiamo adottato un concetto di “italiana” che guarda più alla sostanza che alla forma: Oval Money, Moneyfarm, Prima.it, per citare grandi nomi, hanno la sede all’estero ma sono nate in Italia, fondate da italiani.
Non abbiamo ottenuto risultati sorprendenti, ma quelli che abbiamo sono la prova “data driven” della struttura e della tendenza dell’ecosistema italiano delle startup.
In sintesi, abbiamo le prove che: a) il mercato italiano è nanoscopico per quantità di capitali investiti, b) il seed capital interessa sempre meno ai fondi, c) questa circostanza sta giovando alle piattaforme di equity crowdfunding, d) il Sud è fuori dalla mappa del capitale.
Dimensione. La mediana dei round italiani è 1,4M, valore significativamente superiore a quella europea (circa 900.000 euro) ma la dimensione del mercato è un altro pianeta. Nel periodo 2017-2019 abbiamo contato in Italia 212 deal (escluso il crowdfunding) per poco più di un miliardo, contro quasi 25.000 operazioni per 230 miliardi nello stesso periodo in Europa (1,4 trilioni nel mondo. Fonte: Crunchbase).
Il seed capital. Il dato sulla mediana in Europa, inferiore a quella italiana, è indice della maggiore incidenza del seed capital in Europa: i round di taglia inferiore al milione di euro in Europa sono la metà del totale, in Italia sono meno del 40%. Ma, peggio dello stato, è la tendenza.
La Figura 1 riporta il numero di investimenti realizzati in Italia dal 2017 a settembre 2019, classificati per categoria. In questo caso abbiamo considerato anche l’equity crowdfunding. I fenomeni evidenti sono due: il primo è il calo dei seed round, in assoluto e in percentuale dei venture round, al punto che si verifica l’assurda condizione di una completa inversione del rapporto fra i due; il secondo è la crescita esplosiva dell’equity crowdfunding.
Una possibile chiave di lettura di questi due fenomeni è a nostro avviso da ricercare nell’approccio dei fondi di investimento, che hanno sostanzialmente modificato la struttura dei loro portafogli e la strategia di investimento in questi tre anni, riducendo significativamente la propensione al rischio e spostando il focus su round di dimensioni unitarie maggiori, che tipicamente sono “time consuming” più o meno come i seed round, ma presentano, in teoria, minori rischi di “execution”, perché i team delle startup sono già rodati e (più o meno) completi, il prodotto è più maturo, ci sono metriche concrete e misurabili che aiutano anche la pianificazione.
Il crowdfunding
La progressiva riduzione dei seed round nei portafogli dei fondi ha consentito la proliferazione di investitori “informali” (i cosiddetti “business angel”) e la crescita delle piattaforme di equity crowdfunding, un fenomeno di eccezionale interesse per il mercato, perché spinge verso la “democratizzazione” degli investimenti in startup, ma che almeno in Italia presenta un pericoloso effetto collaterale: la possibile sopravvalutazione delle startup. Non abbiamo dati per dimostrarlo (e ci stiamo lavorando), ma chiunque abbia dimestichezza con la relazione fra il valore di una startup e la coppia rischio / rendimento che la identifica, sa bene che le valutazioni delle campagne di equity crowdfunding sono più alte di quelle dei round con i fondi, in media di almeno il 30% nei casi virtuosi.
Una certa misura di sopravvalutazione è il giusto prezzo che un piccolo investitore deve pagare per partecipare a round di investimento che altrimenti gli sarebbero preclusi, ma il punto è che si stanno moltiplicando i casi di valutazioni ipertrofiche, non giustificate dai fondamentali, che gettano un’ombra preoccupante sulle prospettive del settore.
Le startup che hanno raccolto attraverso il crowdfunding, soprattutto quando le campagne sono di piccole dimensioni, prima o poi avranno nuovamente bisogno di soldi e, se non riusciranno a raccogliere con altre campagne di crowdfunding, dovranno rivolgersi ai fondi, correndo seriamente un rischio di “downround”, cioè di negoziare una valutazione prossima o inferiore a quella della o delle campagne precedenti, potenzialmente diluitiva per i “piccoli” che hanno investito in campagna e che da una opportunità si trasformeranno in un problema da gestire.
Quelle che invece avranno chiuso campagne di successo a una valutazione in linea con i fondamentali, continueranno a raccogliere senza difficoltà, sia in campagne successive, sia da investitori privati e istituzionali.
Milano e il Sud
Se guardiamo agli Stati Uniti nello stesso periodo della nostra analisi (2017-2019), la California batte New York 230 a 72 miliardi di dollari di investimenti in startup (Crunchbase). È tantissimo, ma in proporzione è molto meno di quanto si verifica in Italia fra Milano e tutto il Mezzogiorno (che concentra appena il 2,5% del totale investimenti contro l’81% del Nord e il 72% della sola Lombardia (quasi esclusivamente Milano).
Milano è l’innovation hub d’Italia e Roma sta crescendo in quantità e qualità, ma il Sud produce quasi un terzo dei laureati STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) d’Italia, Napoli, Bari e Palermo sono sede di alcuni fra i maggiori e più prestigiosi atenei d’Italia, con un eccezionale potenziale di trasferimento tecnologico, a Napoli nel nuovo campus della Federico II è esplosa la formazione extra universitaria sul digitale con le academy di Apple e Deloitte; e per finire il tasso di disoccupazione è il doppio del Nord, i ragazzi hanno fame e possono fare grandi cose, se accompagnati e accelerati a dovere.
Per concludere, abbiamo quattro problemi da risolvere.
1) Nanismo. Il mondo del venture capital è stato presidiato negli ultimi dieci anni sempre dagli stessi operatori che hanno fatto un lavoro importante con le poche risorse che riuscivano a raccogliere. Servono operatori nuovi e servono tanti soldi. Il Fondo Nazionale Innovazione e la generalizzata tendenza, ancora sottotraccia ma a tratti già evidente, dei grandi gestori a dirottare risorse su investimenti “alternativi” e “decorrelati”, per affrontare il calo dei rendimenti degli asset tradizionali, probabilmente daranno un grosso aiuto ad affrontare il fabbisogno di liquidità per investimenti in startup. Stanno nascendo nuovi operatori, ma la carenza di team con un track record dimostrabile è un problema che va affrontato, ad esempio con una iniezione di manager provenienti dall’industria, di fondamentale importanza in fondi non generalisti. Aiuterebbe anche un (grande) fondo per il mercato secondario, in grado di alleggerire i portafogli dei fondi in scadenza di mandato e sostenere con nuovi investimenti le startup nelle quali l’investitore originario non può fare follow on.
2) Il seed che sta morendo. Serve dare priorità a nuovi fondi di seed capital, ma servono prima di tutto investimenti in acceleratori e incubatori, per sostenere quelli esistenti e lanciarne di nuovi, con la consapevolezza che se non si crea un vivaio di nuove startup non ci sarà materiale in cui investire i soldi del venture capital, ma anche che i tempi di ritorno dell’investimento in pre-seed e seed possono essere molto lunghi, quindi servono soldi “pazienti”, di matrice pubblica e industriale con un interesse specifico su segmenti verticali e “cross-industry”, dal med tech all’intelligenza artificiale, dal food tech alla cyber security.
3) La bolla dell’equity crowdfunding. Per evitare che esploda serve una pratica di mercato che impedisca il lancio di campagne palesemente sopravvalutate, ad esempio un equivalente del Nomad per le società quotate, e serve limitare l’utilizzo spregiudicato della leva del marketing, che aiuta ad attirare risparmiatori sprovveduti e inconsapevoli.
4) Il Sud che non c’è. La mancanza di correlazione fra risorse intellettuali e finanziarie è una anomalia che va corretta. Nel 2013 gli investimenti al Sud avevano superato quelli al Nord, tanto che si parlò di “effetto HT”, dal nome del fondo di fondi istituito presso la Presidenza del Consiglio per co-finanziare con 82 milioni di soldi pubblici tre fondi di venture capital dedicati a investimenti al Sud. Oggi il terreno è molto più fertile di sei anni fa e nel programma del Fondo Nazionale Innovazione sembra esserci una riserva di capitali per investimenti in startup nel Mezzogiorno. Le startup del Sud aspettano quei soldi come l’acqua nel deserto.