Intervista a Devis Bellucci, autore del libro “Materiali per la vita. Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo”
I tessuti umani normalmente non amano i corpi estranei, ma esiste un’intera classe di materiali che inseriamo nei nostri corpi per vivere meglio. In alcuni casi, proprio per poter continuare a vivere. Sono i biomateriali, capaci di aggirare le difese dell’organismo. Hanno una storia peculiare, fatta di ricerche pionieristiche e visionarie, svolte scientifiche inaspettate, esperimenti eroici e persino sfacciata fortuna. Ne parla Devis Bellucci, ricercatore in Scienza e tecnologia dei materiali, nel libro “Materiali per la vita. Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo” (Ed. Bollati Boringhieri).
Che cosa si intende esattamente per “biomateriali”?
“I biomateriali sono sostanze o combinazioni di sostanze – farmaci esclusi – sviluppate con l’intento di trattare i malanni dei nostri corpi. Parliamo non solo della realizzazione di protesi esterne, ma anche e soprattutto di materiali pensati per interfacciarsi con l’universo biologico; ciò significa, per capirci, materiali per uso “interno”. Dunque, sono biomateriali quelli impiegati in odontoiatria (es. otturazioni dentali), ortopedia (protesi d’anca e di ginocchio, chiodi e placche), quelli con cui si producono stent cardiovascolari, lenti intraoculari, fili per sutura riassorbibili, etc. Il catalogo è davvero molto ampio”.
Quali sono i principali materiali che rientrano in questa definizione e per che cosa vengono utilizzati?
“Possono essere sia materiali innovativi, cioè sviluppati specificatamente per interfacciarsi col corpo umano o con l’universo biologico – ad esempio i biovetri – sia materiali più tradizionali, come il titanio o il silicone, che quando vengono usati per produrre protesi o impianti acquistano l’etichetta “bio”. C’è un po’ di tutto: dalle plastiche ai ceramici, dai metalli ai materiali di derivazione biologica, come il collagene e l’acido ialuronico. Nel complesso, questi materiali possono avere vari gradi di reattività una volta a contatto con l’ambiente fisiologico: possono essere chimicamente inerti oppure venire riassorbiti col tempo, fino a rilasciare sostanze chimiche specifiche che orientano il comportamento delle cellule, stimolando ad esempio la formazione di tessuto osseo dove c’è una lacuna ossea da riparare. Al di là degli impianti e delle protesi – tra l’altro quest’anno ricorre il 60esimo anniversario della prima protesi al seno in silicone – uno degli impieghi di punta dei biomateriali è quello che li vede protagonisti nell’ingegneria dei tessuti, che mira a rigenerare in laboratorio i tessuti del paziente per superare la logica dei trapianti da donatore. In questo caso, coi biomateriali si realizzano gli scaffold: supporti temporanei porosi su cui vengono seminate le cellule del paziente, che poi formeranno il nuovo tessuto”.
Quando è cominciata la ricerca in questo campo?
“Diciamo, indicativamente, dopo il secondo conflitto mondiale, che lasciò in eredità tutta una serie di materiali “nuovi”, come i siliconi e le plastiche. Parliamo di sostanze che persero la loro natura “strategica” e approdarono sul mercato, in cerca di nuovi impieghi. Tra la fine degli anni ’40 e la fine degli anni ’60 assistiamo, in particolare, allo sviluppo delle prime lenti intraoculari per trattare i pazienti affetti da cataratta (non vanno confuse con le lenti a contatto: le lenti intraoculari vengono infatti impiantate nell’occhio), all’impianto delle prime protesi al seno in silicone, allo sviluppo delle protesi d’anca di moderna concezione, fino agli studi pionieristici del prof. Larry Hench, americano, con cui nascono i biovetri: i primi materiali sintetici capaci di legarsi al tessuto vivente”.
Perché ha suscitato polemiche?
“Inizialmente fu difficile fare proprio il concetto di biocompatibilità, ossia l’idea che esistessero dei materiali ben tollerati dal corpo umano, in grado di rimanere impiantati per lungo tempo senza dare effetti avversi. Il corpo umano, infatti, è un ambiente piuttosto ostile per i materiali, ricco com’è di fluidi salini e caldi (banalmente, a 37°C). I metalli tendono quindi a essere corrosi e le plastiche a degradarsi. Uno dei ricercatori che ebbe più difficoltà fu proprio l’ideatore delle prime lenti intraoculari in Plexiglass, l’oculista inglese Harold Ridley, che dovette combattere per anni contro gran parte dell’entourage medico, convinto che non fosse possibile impiantare un materiale in un tessuto delicato come l’occhio umano. Invece, aveva ragione Ridley. Ebbe il suo da fare anche il professor Per-Ingvar Brånemark, svedese, che avrebbe dato un contributo fondamentale allo sviluppo dei moderni impianti dentali.”
Dall’acido ialuronico iniettato al cavallo azzoppato Rivage, durante le Olimpiadi del 1976, al pilota della Royal Air Force grazie al quale abbiamo oggi i cristallini artificiali, fino alle prime protesi al seno in silicone: quali sono le principali scoperte innovative legate all’uso dei biomateriali?
“La storia e l’evoluzione dei biomateriali è davvero ricca di aneddoti, ricerche pionieristiche e visionarie, esperimenti eroici e, in più di un caso, di sfacciata fortuna nonché qualche truffa. Racconto tutto nel mio ultimo libro, “Materiali per la vita” (Bollati Boringhieri), che devo dire è stato piuttosto appassionante scrivere. C’è la storia appunto delle prime lenti intraoculari: il dottor Harold Ridley ebbe l’intuizione della biocompatibilità del Plexiglass osservando che i piloti feriti in viso dalle schegge dei loro abitacoli, schegge che non era stato possibile togliere, non sembravano mostrare fastidi nemmeno dopo molti anni, al contrario di chi aveva in viso schegge di vetro. Poi la storia dello sviluppo dei biovetri: in questo caso il loro giovane scopritore, Larry Hench, si stava occupando di tutt’altro, ma poi conobbe su un autobus un colonnello di ritorno dal Vietnam – siamo negli anni ’60 – che gli chiese se, secondo lui, sarebbe stato possibile sviluppare dei nuovi materiali, al posto dei soliti metalli, per trattare i reduci con ferite agli arti, che rischiavano l’amputazione. O ancora, per approdare nel mondo dello sport, la vicenda del cavallo Rivage che, alle Olimpiadi del 1976, vede protagonista una molecola allora poco nota: l’acido ialuronico. Un veterinario somministrò, con un’iniezione intra-articolare, dell’acido ialuronico al cavallo, che zoppicava. Con quel cavallo, pochi giorni dopo la Francia vinse l’oro nell’ippica”.
Quali sono le frontiere più innovative della ricerca in questo settore?
“Oltre allo sviluppo di materiali sempre più avanzati per l’ingegneria dei tessuti, a cui ho già accennato, ci sono i materiali per drug delivery, ossia il rilascio controllato di farmaci. Parliamo, ad esempio, di usare un polimero come vettore per indirizzare un farmaco verso un target specifico dell’organismo, come una massa tumorale, e qui rilasciarlo lentamente circoscrivendone l’effetto. Infine, le protesi e gli impianti più avanzati arriveranno dal contributo sempre più decisivo della stampa 3D e dell’elettronica”.
Diventeremo dei cyborg alla ricerca dell’immortalità?
“Qualcuno di noi, sicuramente, non si accontenterà di rimanere in buona salute grazie alla sinergia tra medicina e biomateriali: c’è chi chiederà più di quanto Madre Natura ci abbia concesso. Parlo del corpo performante: correre più veloce di quanto non sia possibile, vedere l’invisibile (ad esempio, la radiazione infrarossa) e via dicendo. Poi c’è la questione della giovinezza. Grazie all’ingegneria dei tessuti, potremo mantenerci giovani invecchiando? Non so. Speriamo comunque, al di là dei nostri corpi migliorati, di rimanere umani, che è sempre il fulcro attorno al quale ruota tutto”.
L’AUTORE
Devis Bellucci (1977) ha conseguito una laurea e un dottorato in fisica all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, dove oggi è ricercatore in Scienza e tecnologia dei materiali. Si occupa in particolare di biomateriali per ortopedia, odontoiatria e ingegneria dei tessuti. È autore del saggio “Materiali per la vita: le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo” (Bollati Boringhieri). Scrittore, giornalista e blogger, ha collaborato con diverse testate tra cui «Vanity Fair». Nel suo libro “Guida ai luoghi geniali” (Ediciclo) ha raccontato i più bei siti italiani legati alla scienza, alla tecnologia e all’innovazione. Lo trovate sui social come @ditantomondo.
Foto in alto: Chokniti Khongchum da Pexels