L’esperto Stefano Chiarazzo: “La comunicazione passa sempre di più dalle pagine dei dirigenti: ma attenzione ai ceo celebrity”
Il più attivo è Francesco Pugliese di Conad, con la stratosferica media di 31 post al giorno, il più coinvolgente Remo Ruffini di Moncler, quello cresciuto di più Stephan Winkelmann di Lamborghini, che vince anche la palma di più seguito in Rete. Gli amministratori delegati delle grandi aziende sono sempre più attivi sui social. L’agenzia Pubblico Delirio ha monitorato Linkedin da marzo a giugno compilando quattro classifiche che danno i numeri e mostrano come si stanno muovendo. Ne abbiamo parlato con il fondatore Stefano Chiarazzo, che sull’argomento ha anche scritto un libro (Social Ceo, edizioni Franco Angeli).
Follower su LinkedIn, i numeri
Prima, però, qualche numero (qui la classifica completa). Come anticipato, il più seguito su LinkedIn è Stephan Winkelmann, ad di Automobili Lamborghini (121.600, +42.000). Seconda piazza per Luca De Meo (93.900, +30.400), ad di Renault Group. Medaglia di bronzo per Nerio Alessandri (69.900, +17.800), fondatore e ad di Technogym, che prende il posto di Marco Alverà (70.700 follower, +14.700), uscito dal panel avendo di recente lasciato la guida di Snam.
Appena fuori dal podio Giampaolo Grossi di Starbucks Italia, che con 18.600 nuovi follower raggiunge quota 48.500 (+4 posizioni rispetto al 2021); seguono Corrado Passera di Illimity Bank (45.700, +7.100) e Francesco Starace di Enel (44.400, +5.000) che si scambiano la posizione rispetto al 2021.
Cristina Scocchia, che dalla guida di Kiko Milano è passata a quella di Illy, grazie ai 20.400 nuovi follower è la prima donna in top ten, con un totale di 41.700.
Chiudono Claudio Descalzi di Eni (41.200, +4.600), Andrea Pontremoli di Dallara (33.500, +8.400) e Bartolomeo Rongone di Bottega Veneta (30.700; +11.700). Scivola, invece, fuori dai dieci Francesco Pugliese di Conad (29.400, +5.000).
Chiarazzo, da qualche tempo gli ad hanno cominciato a esporsi su LinkedIn. Rispetto al passato, oggi quella dell’amministratore delegato non è più solo una figura da organigramma e dichiarazioni alla stampa: si sta trasformando sempre di più in una delle tante leve di comunicazione a disposizione delle aziende. Che come tale può essere, ed è, manovrata. Corretto?
Non sbaglia. L’ad si vede sempre più spesso sui social, ma non solo: nel media mix, cioè nel piano di comunicazione delle aziende, entra talvolta persino la squadra dei dirigenti. Nel marketing si sono sempre considerate le 4 P (product, price, place, promotion, ndr); recentemente se n’è aggiunta un’altra, people, cioè le persone. Qualunque stakeholder chiede trasparenza, accessibilità, capacità di avere un ruolo sociale alle aziende con cui lavora, persino quella di colmare le lacune del governo. Insomma, per l’impresa, sia grande sia pmi , il ruolo di chi parla al pubblico è diventato sempre più importante.
Nella vostra classifica identificate diverse modalità di intervento: l’ad suppporter si occupa di territorio, persone e impatto; l’attivista privilegia polarizzazione, azione e cambiamento; il thought leader è focalizzato su pensiero, confronto e crescita; e, infine, il reporter parla di sfide, piani e risultati. Ognuno declina a suo modo la necessità di informare e quella di coinvolgere, quella di creare comunità e quella di fare business.
Le modalità di intervento variano. I team che seguono i top manager nelle realtà strutturate oggi si occupano anche di digitale; ai compiti tradizionali dello spin doctor, che cercava di anticipare le tendenze e governare la comunicazione sulla stampa e in televisione, oggi aggiungono questa componente innovativa.
Esistono rischi per l’azienda in questo processo?
Il rischio è che l’amministratore delegato faccia personal branding di sé stesso: non bisogna dimenticare che il fine della comunicazione di un dirigente, in questo senso, deve essere quello di fare l’interesse dell’azienda.
Ma qual è, e come si stabilisce, il confine tra uso privato e aziendale dei social? Insomma, un ad ha diritto di parlare a titolo personale?
Se c’è un cognome importante è chiaramente più difficile trovare un confine netto tra personale e professionale: ogni affermazione verrà sempre letta in relazione al ruolo aziendale, penso alle grandi famiglie industriali. Ma c’è anche un tema di contesto. Ci sono casi molto positivi in cui viene usato LinkedIn per comunicare dal punto di vista professionale e Instagram per raccontare qualcosa di personale, magari postando foto della gita in barca o in montagna. Il consiglio è non eccedere in atteggiamenti da star. Su altri temi, come se postare o meno foto dei figli, il dibattito è aperto. Ad ogni modo, raccontare la persona che c’è dietro il manager per me resta una cosa bella. Cristina Scocchia, che adesso è a Illy, ha pubblicato recentemente un post dove raccontava com’è essere una mamma manager, e ha ottenuto un engagement imbarazzante, in senso positivo. Raccontare di sè aumenta l’empatia, significa dire “sono come voi“. E l’effetto c’è, glielo assicuro.
Un certo effetto gregge, anche.
Il rischio di washing esiste, non nascondiamoci. Come è reale il tema dei tanti che corrono alla corte dell’ad. Ne parlo spesso coi manager: una delle grandi barriere per decidersi a entrare sui social in maniera professionale sono le migliaia di richieste di persone che vogliono entrare in contatto con i dirigenti, proporsi come fornitori, lavorare assieme.
Ma chi segue un ad? E perchè lo fa? C’è solo una componente aspirazionale?
Sì, ma non solo. C’è il tema dell’aggiornamento su quello che fa l’azienda e le dinamiche di un determinato settore: in fondo stare al passo seguendo un ad è più facile, c’è più colore sul suo profilo che in una pagina aziendale. Noto, poi, una componente formativa, soprattutto per i manager che si collocano come thought leader: dai loro post si impara qualcosa. E poi c’è l’aspetto legato alla community: molti follower sono dipendenti o lavorano nella filiera, alcuni sono semplicemente contenti di stare in quell’azienda, e di aver un dirigente che ha il coraggio di svelarsi.
Facciamo un nome che si è distinto in negativo?
Preferirei fare quelli positivi.
Prego.
Ad esempio, Marco Alverà mi è sempre piaciuto per l’empatia, la capacità di includere l’organizzazione nei propri post. Uno stile dotato di grande informalità senza, però eccedere e finire per trasformarsi in un“ceo celebrity”.
Alla Richard Branson?
Branson lo è a metà, come Elon Musk. Ovviamente parlaiamo di due grandissimi innovatori: ma a volte un ego di grandi dimensioni ha portato Musk a fare errori che hanno avuto contraccolpi sul business, promesse eclatanti che non sono state mantenute, come nel caso dell’acquisto di Twitter. In alcuni altri casi, l’errore è l’ostentazione della propria posizione sociale, che è rischiosa. Ma dipende molto dal settore: in certi contesti può andar bene, pensiamo al lusso, dove l’aspetto aspirazionale conta.
Altri nomi?
Mi è piaciuto Nerio Alessandri di Technogym per i post sul fitness, o Francesco Pugliese di Conad, con le posizioni nette espresse sul green pass e i vaccini: ai dipendenti che si rifiutavano ha fatto un discorso duro, e ci vuole fegato. Ma chiaramente non è da tutti. Il grosso dei ceo si limita a essere reporter, non hanno il coraggio di esporsi, di guidare, di assumersi dei rischi per dire qualcosa. Mi piace anche Fabrizio Gavelli, ad di Danone Company in Italia e Grecia, che si definisce activist of brand activism.
Qual è il minimo sindacale per un amministratore delegato sui social, oggi?
Diventare uno strumento di amplificazione della comunicazione aziendale.
Il rapporto che avete pubblicato riguarda solo LinkedIn. E gli altri social?
Ci sono, ma la presenza dei manager è minore e retaggio del passato, perché quella di Microsoft al momento è la piattaforma più interessante per chi fa business. Anche nelle strategie aziendali corporate, Twitter non viene più curato come una volta. Noto, invece, che Instagram è diventato importante per chi è attento all’immagine: cito ancora Nerio Alessandri, che è su tutte le piattaforme. Urbano Cairo (editore del Corriere della Sera, di la7 e proprietario del Torino, ndr) invece su LinkedIn non c’è, ma ha un profilo Instagram dove posta foto coi giocatori o in redazione. Ci sono poi ad che usano le piattaforme in modo crossmediale, come Claudio Descalzi di Eni, che pubblica gli stessi post su LinkedIn e Facebook.
Chiudiamo con i ghost writer. Non giriamoci intorno: non sempre i contenuti vengono scritti dagli ad. E’ tutto un fake? Oppure, meglio: facciamo le percentuali.
Nella mia esperienza, praticamente il 100% degli ad è supportato da uno staff di comunicazione che prima si limitva a scrivere i discorsi e i comunicati stampa, e oggi si occupa anche dei social. Ma a mio parere il termine fake è scorretto.
Ci sono casi che spiccano: Pugliese di Conad, secondo il vostro monitoraggio, ha pubblicato una media di trentuno post al mese, cioè più di uno al giorno.
Ma quello è un caso eccezionale. Certo, l’amministratore delegato, di base, deve fare il suo mestiere, e la barriera del tempo è quella che porta alcuni a non essere presenti sui social. Ma sulla sua pagina vengono ripubblicati più che altro commenti altrui o contenuti aziendali, attività che non richiede molto tempo: tra le cinque notizie della pagina corporate, una viene rilanciata da lui, con l’aggiunta di una riga di commento. E’ semplicemente una strategia, che alla lunghezza del contenuto preferisce la presenza in tempo reale. Anche Francesco Starace di Enel ha un buon rapporto con i social: è molto attivo su Twitter. Per gli altri invece, e si vede bene dal nostro report, la media è di uno o due post a settimana. E questo si può fare senza troppi problemi.