L’associazione conta oggi cento soci. «All’inizio erano otto. Nel 2012 si respirava un’aria pionieristica», ci ha spiegato il presidente. «Roma non sa raccontarsi. Il problema di Milano è che parla solo di se stessa»
Gianmarco Carnovale la ricorda così. «Fu una coincidenza». Per chi, come l’autore dell’articolo, a quell’epoca era un ventenne e di digitale aveva soltanto l’account su Facebook, è impossibile sapere che il 27 settembre 2012, a Roma, non soltanto veniva costituita l’associazione Roma Startup, ma si teneva TechCrunch Italy, evento simbolico per l’ecosistema e che ancora oggi si ricorda tra gli addetti ai lavori. La rivista statunitense oggi più autorevole nel settore faceva tappa in Italia per raccontare le startup e incontrare i protagonisti. In quelle stesse ore prendeva forma una realtà che in esordio contava otto soci. Dieci anni dopo sono diventati cento. Ce ne ha parlato il presidente di Roma Startup, Gianmarco Carnovale, in questa intervista.
Cosa ti ricordi di quei tempi?
Qualche giorno prima del 27 settembre avevamo organizzato un evento chiamato Capitali coraggiosi, sempre a Roma. E poi costituimmo l’associazione. All’epoca si respirava un’aria pionieristica, con molto più cultura del garage. Si notava qualche evento itinerante, i primi programmi di accelerazione. Ricordo Enlabs, il primo acceleratore italiano che sarebbe poi divenuto Luiss Enlabs. C’era la prima onda entusiastica di giovani. E ovviamente era tutto digital. Inutile nasconderselo: l’ecosistema si teneva insieme col nastro adesivo, era il far west, con tantissima confusione tra startup e piccola impresa. A dire il vero, quella c’è ancora…
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Perché Roma Startup?
È nata raccogliendo vari soggetti. Non siamo mai stati un operatore, non abbiamo una posizione di attività verso le startup e non eroghiamo servizi. Ci siamo definiti ecosystem builder, una non profit che riunisce soggetti di vario tipo, dalle università agli investitori. La nostra finalità è di costruire regole comuni e migliorare il campo di gioco.
Cosa è cambiato in dieci anni?
Anzitutto è aumentata la massa critica. Se all’epoca ci parlavamo in quattro gatti, oggi la politica ha capito che cosa sono le startup. Siamo diventati un ecosistema esteso e solido, ma ora dobbiamo cominciare a parlare con quelli che stanno al di fuori. Roma Startup è nata dialogando con San Francisco, Londra, Parigi, Amsterdam, Berlino, Barcellona. Ci siamo sempre interfacciati con associazioni di categoria.
Il fatto di essere a Roma vi ha aiutato?
Ci è stato riconosciuta una cosa: il coraggio di aver sempre detto che a Roma si fa innovazione. Non scordiamocelo: è il più grande polo di ricerca d’Italia, ci sono 300mila studenti, grandi aziende hanno sede qui. Eppure dire certe cose come, ripeto, che a Roma si fa innovazione, era come un’eresia. Roma Startup ci ha messo la faccia mostrando chi erano gli attori dell’ecosistema. Questo ha fatto prendere coraggio e coscienza.
“Siamo diventati un ecosistema esteso e solido, ma ora dobbiamo cominciare a parlare con quelli che stanno al di fuori”
Dalla Capitale d’Italia alla capitale delle startup. La narrazione di questi anni è stata Milano centrica?
Secondo me non è l’Italia a essere Milano centrica, ma è Milano che parla solo di se stessa ed esagera di narrativa. Si presenta come l’unico luogo dell’innovazione nel paese, ma andiamo a vedere cosa succede a Venezia, a Napoli, o in Sardegna. Credo che Milano per molti anni abbia offeso il resto del paese. In questo c’entra anche il fatto che l’editoria sta a Milano e per comodità si è preferito dare voce a questa lettura.
In una precedente intervista dicevi, d’altra parte, che Roma si racconta poco.
È ancora vero. Ne stiamo parlando a lungo per capire come gestire la cosa. Roma non ha più una sua editoria e con i vari stakeholder stiamo valutando la possibilità di far nascere un media che racconti l’innovazione nella Capitale.
“Non è l’Italia a essere Milano centrica, ma è Milano che parla solo di se stessa ed esagera di narrativa”
Robotica, intelligenza artificiale, climate tech. Sono alcuni dei settori trainanti, ma perché non fanno breccia nell’opinione pubblica?
L’Italia è un paese demograficamente anziano. Dal punto di vista del consumo e dell’acquisto di innovazione ciò rende il mercato povero. Per quanto riguarda le aziende, abbiamo poche grandi realtà. Tutto il resto è un tessuto di PMI. Ora molti si sono svegliati perché le crisi in atto fanno sì che anche le medie imprese debbano internazionalizzarsi.
Su StartupItalia stiamo portando avanti il format Italia 2022, per raccogliere proposte concrete. Parlamento e Governo cosa dovrebbero fare per far crescere l’ecosistema e favorire l’imprenditoria?
Occorre fare un tagliando al perimetro normativo. Le definizioni dei registri delle startup innovative e delle PMI non tengono più. Le norme sono troppo limitative per investitori, SGR, venture capital, holding. Un VC italiano è meno competitivo di uno straniero proprio per la struttura delle regole. Come misuriamo le startup innovative? In base a quante sono e a quanto fatturano. Avere 14mila startup in Italia che cosa significa? Chi misura soggetti come Satispay? Le startup dovrebbero essere distinte dalle società senza un modello di business scalabile. Dovrebbero aver più incentivi perché sono più rischiose. Se diciamo che la media di fatturato di una startup italiana è 100mila euro diciamo una stupidata. Perché non osserviamo quelle che vanno davvero bene.