Per la nostra rubrica sui protagonisti del Venture Capital intervista alla guida di Primo Ventures Gianluca Dettori, tra gli speaker di SIOS23 Winter il 21 dicembre. Una vita nell’ecosistema dell’innovazione e gli esordi da imprenditore. «Nel nostro lavoro scopri solo dopo dieci anni se sei stato bravo»
Anche Gianluca Dettori sarà con noi al SIOS23 Winter Edition, che torna giovedì 21 dicembre a Milano nel prestigioso Palazzo Mezzanotte, sede di Borsa Italiana. Vieni ad ascoltarlo dal vivo e iscriviti qui all’evento. Scopri qui tutti gli speaker e il programma.
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«Per alcune startup credo non abbia davvero senso rivolgersi al Venture Capital. I fondi VC dopo 10 anni vanno chiusi e non possiamo puntare su aziende che ragionano nell’ottica dei Mom-and-Pop Shop. Serve avere grandi ambizioni e la consapevolezza che la propria azienda, a un certo punto, verrà acquisita da qualcuno». Gianluca Dettori, nato a Torino nel 1967, è uno dei volti storici dell’ecosistema dell’innovazione italiano. Prima imprenditore con Vitaminic, da diversi anni ha scelto di diventare un investitore. Oggi è Chairman e General Partner di Primo Ventures, fondo lanciato 12 anni fa e focalizzato sulle startup early stage, tra il digital e la space economy. «È stato un passaggio normale. Senza il Venture Capital semplicemente la mia azienda non sarebbe mai esistita». Dopo averlo intervistato per i 10 anni di StartupItalia, in un articolo che ripercorre una fase importante di storia economica nazionale, gli abbiamo chiesto qualcosa in più sulla quotidianità e sul mestiere dell’investitore.
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Dettori: la mia giornata tipo
«Un venture capitalist fa diverse attività nello stesso tempo. E questo tempo dura dieci anni, durante i quali accompagniamo le portfolio company. In questo momento sto aiutando Cubbit nella fase di fundraising. Seguo questa startup dal 2016, da quando era solo un Power Point». In altri casi si affianca un’azienda innovativa per aiutarla nel percorso di recruiting. «E sempre in questo periodo stiamo lavorando per una possibile acquisizione». Senza dimenticare la costante fase di scouting e valutazione dei progetti imprenditoriali che si candidano per un investimento. «Ogni anno investiamo su cinque startup e riceviamo un migliaio di proposte. Il nostro modello prevede di essere lead investor e l’attività prevalente è lo sviluppo del portafoglio, tra momenti belli e i tanti momenti difficili».
Per raccontare del Venture Capital in Italia è bene sottolineare che si sta parlando di un mercato inesistente fino a una decina di anni fa. A fine anni Novanta c’erano i pionieri, come Elserino Piol. «In quel periodo Tiscali era la più grande internet company d’Europa». Lo scoppio della bolla delle dot.com a inizio millennio negli Stati Uniti ha avuto tuttavia ripercussioni drammatiche nel vecchio continente. «In Italia il VC era scomparso, non si è fatto più nulla per anni». C’è forse voluta un’altra crisi, quella del 2008, per spingere altri pionieri a buttarsi – chi con startup, chi con fondi – e dimostrare che anche qui si poteva fare innovazione ad alto contenuto tecnologico.
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Cosa manca all’Italia
C’è poi un altro elemento chiave nella quotidianità degli investitori, la raccolta di capitale di rischio. «Quelli che ci vengono assegnati dagli istituzionali arrivano perché alla base c’è la convinzione che questo potrà migliorare la competitività del Paese». Un quadro complesso, che Dettori riassume con un paragone. «Il business model di un fondo VC è complicato, è come fare una startup». Solo che a differenza del motto sul fallire alla svelta, molto utile per chi sviluppa tecnologia, la situazione è differente: il riscontro sull’investimento necessita di un tempo maggiore. «Lo scopri dopo dieci anni se sei stato bravo. Con l’exit di iubenda nel 2022 abbiamo sigillato il rendimento del nostro primo fondo».
La raccolta di investimenti in Italia ha chiuso il Q3 con numeri in crescita, ma la situazione resta comunque incerta e più cauta rispetto a pochi anni fa. Cosa si può dire sull’attualità? «Il primo aspetto che mi sento di sottolineare è la presenza di un’infrastruttura VC. Prima non c’era. Oggi si investe regolarmente e i round atterrano ogni giorno. Sembra qualcosa di scontato, ma non lo è». Continuità dettata anche da una maggiore qualità in circolazione. «È cresciuto il livello delle startup che vogliono fare progetti ambiziosi e internazionali». Un punto debole dell’ecosistema sta tuttavia nelle sue dimensioni, ancora non così ampie. «Ci vorrebbero 100 fondi. Solo a Parigi ce ne saranno 200. Ne servirebbero, con più strategie. In Italia è carente il settore successivo al Serie A, dove occorrono attori da 300/400 milioni».
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Ottimismo e realismo
In un Paese che è tra le principali economie al mondo il settore startup non ha toccato ancora il suo massimo. E questo lascia ben sperare sulle prospettive future. «Siamo un mercato sottofinanziato e ciò si riflette anche sulle startup. Le risorse non affluiscono ancora, ma c’è spazio per crescere». L’ottimismo deve però fare i conti con la realtà odierna. Prendiamo l’esempio dell’intelligenza artificiale, materia su cui USA e Cina investono miliardi con le proprie Big Tech. La politica fa quel che può, per tentare di regolamentare. «Siamo in una fase di trasformazione dell’industria dei software». Sarebbe azzardato credere che l’Italia possa competere con giganti del calibro di OpenAI. «Noi però abbiamo il talento, una risorsa scarsa. Il problema enorme è che lo stipendio di un ingegnere in Silicon Valley è di mezzo milione di dollari all’anno. Difficile riuscire a trattenere i più bravi. In Italia non abbiamo certo la visione della Francia: Macron ha annunciato che vuole reindustrializzare la Francia con le startup».
Il discorso è infine tornato al rapporto tra VC e startup. Attori imprescindibili nell’ecosistema. Non tutte però le startup puntano a raccogliere quel tipo di capitale, magari prevedendo altri canali di finanziamento. «Il Venture Capital entra in aziende che hanno ambizioni significative, che comportano rischi. E non lo dico per elitarismo». Per dare un’idea Dettori ha concluso con qualche numero. «Nel nostro mondo massimo due aziende fanno il ritorno di tutto il fondo. Sono le imprese fund returner. Se da 80 milioni di euro ne ottieni 200 alla chiusura del fondo, allora hai fatto un buon lavoro».