Dalla Cina arriva una notizia inaspettata: Huawei potrebbe fermare la produzione dei Kirin. Qualcomm annusa l’affare, ma deve fare i conti con il ban di Donald. Che nel frattempo della faccenda ha fatto propaganda, mettendo a rischio pure gli interessi delle aziende USA
Trump banna Huawei, poi TikTok e pure WeChat: una mossa legata alla “sicurezza nazionale”, dice il Presidente USA, ma che rischia di ritorcersi contro l’economia statunitense a causa degli interessi incrociati che sono sempre più frequenti nel mondo della tecnologia. Un’economia globale non può fare a meno di mercato interno, estero, e di prodotti e soluzioni sviluppati altrove che sono funzionali al complesso meccanismo che c’è dietro un’ecosistema mobile moderno: così ora Donald dovrà fare i conti con la realtà, così come devono farlo le aziende che si trovano a vario titolo coinvolte nella sua propaganda in vista delle elezioni di fine anno.
Il caso Qualcomm
Di Huawei negli scorsi mesi abbiamo parlato fino allo sfinimento: si tratta dell’azienda cinese più in vista in Occidente, che si è costruita negli anni una reputazione sia per quanto riguarda l’infrastruttura di rete (antenne e apparati che formano le reti di telecomunicazione), sia nel mondo consumer grazie a una serie di fortunati smartphone che hanno accresciuto la popolarità del marchio. Per questo, o forse anche per questo, è divenuta oggetto dell’attenzione di Trump: che ha iniziato progressivamente a ventilare rischi per la sicurezza interna degli USA, fino all’ormai celebre iscrizione di Huawei nella cosiddetta entity list nel 2019 che ne ha progressivamente limitato le possibilità di commerciare con le aziende a stelle e strisce.
Portata all’estremo, la politica di Trump ha determinato un paio di conseguenze tangibili: la prima, paradossale, è che nonostante tutto Huawei ha accresciuto le proprie quote di mercato nel settore consumer, grazie a un prodotto azzeccato come il P40 e a un mercato interno cinese che ha risposto molto positivamente (e che prima di altri ha fatto ripartire i consumi, dopo l’emergenza sanitaria). Il rovescio della medaglia, tuttavia, è che la grande richiesta di smartphone ha ridotto la disponibilità di componenti nei magazzini Huawei: l’azienda aveva fatto scorta per fronteggiare questa crisi, ma ora i chip iniziano a scarseggiare. In più, di fatto dal prossimo mese le fonderie taiwanesi di TSMC non potranno più fornire i SoC Kirin alla cinese: da qui l’annuncio di Richard Yu, CEO di Huawei Consumer, riguardo il rischio di non vedere più altri processori fatti in casa a bordo dei suoi smartphone.
Dall’altra parte del Pacifico qualcuno ha fiutato l’affare: così, riportano i media statunitensi, Qualcomm ha iniziato a cercare di convincere la politica di Washington a concedergli un permesso speciale per vendere i suoi chip a Huawei. Certo sarebbe una svolta inattesa: Trump mette Huawei in una posizione impossibile, fino a costringerla a dover ripiegare sui chip Qualcomm da cui si era parzialmente affrancata anni fa (negli smartphone Huawei non mancano comunque componenti di Qualcomm e altre aziende, sebbene i SoC Kirin abbiano rimpiazzato gli Snapdragon). Ci sono miliardi di dollari in ballo: una torta di cui Qualcomm spera di potersi accaparrare una grossa fetta, altrimenti ci sarebbe il rischio che dovendosi cercare nuovi fornitori Huawei si rivolga a concorrenti asiatici.
C’è poi un piccolo dettaglio che vale la pena citare: mentre attendiamo che Trump fornisca le prove della supposta minaccia alla sicurezza nazionale posta dai dispositivi Huawei, nelle scorse ore è emersa una notizia inaspettata relativa alla vulnerabilità di un componente dell’architettura Qualcomm per gli smartphone. Come raccontato da Check Point, nel componente che sovrintende la gestione dei sensori immagine (il cosiddetto DSP: Digital Signal Processor) sono state scovate molteplici vulnerabilità con un impatto significativo (uno smartphone potrebbe essere trasformato in un dispositivo-spia, o finire totalmente sotto il controllo di un attaccante), tanto da spingere il security vendor a denominare “Achille” la sua scoperta (con ovvio riferimento al mito greco). Il DSP Qualcomm è presente in milioni di dispositivi di molteplici produttori: non ci sono rischi immediati e concreti per gli utenti, ma produrre e distribuire le patch per tutti potrebbe rivelarsi una sfida assai complessa (Qualcomm comunque ha già fatto sapere di essere al lavoro per questo).
Le conseguenze del ban di WeChat
Ancora più suggestiva è l’ipotesi di Ming-Chi Kuo, analista esperto del mondo Apple che raramente fallisce in un pronostico: se la recente decisione della Casa Bianca di estendere anche a WeChat (e TikTok) il ban – mettendo l’app in una posizione simile (ma non identica) a quella di Huawei – costringesse Google ed Apple a dover rimuovere l’app dai rispettivi store, a pagare il prezzo più alto sarebbe paradossalmente Apple. Secondo Kuo, infatti, la mancanza di WeChat a bordo di un iPhone farebbe diminuire drasticamente l’attrattività dello smartphone con la mela agli occhi dei consumatori asiatici.
Per spiegare questo paradosso è necessario raccontare che ruolo svolge WeChat nella vita di tutti i giorni in nazioni come la Cina: se da noi è pressoché sconosciuta, l’app sviluppata da Tencent (nel frattempo diventato un colosso) in Asia è senz’altro la più diffusa piattaforma di messaggistica, con in più un incredibile ecosistema di servizi e strumenti di pagamento che nel tempo ha reso WeChat pressoché indispensabile nella vita di tutti i giorni. Con WeChat si può ordinare il cibo al ristorante (basta inquadrare un QR-code per accedere al menu), oppure persino pagare una lattina fresca a un distributore automatico: da questo punto di vista la diffusione dei pagamenti elettronici in Oriente ha fatto decisamente più passi avanti rispetto all’Occidente. Se possedere un iPhone significasse non poter usare WeChat, per un cittadino cinese sarebbe decisamente più scomodo che non avere i servizi Google a bordo di uno smartphone Android.
Secondo Kuo, se WeChat dovesse essere eliminato dall’AppStore di Apple l’impatto si potrebbe misurare in un calo del 25-30 per cento nelle “consegne” (che si può tradurre facilmente in “vendite”, per semplificare) per gli iPhone, con un calo conseguente del 15-25 per cento per gli accessori e il resto dei device di Cupertino. Esiste anche la possibilità che Apple debba eliminare WeChat solo dall’AppStore statunitense, in quel caso le stime sarebbero meno pesanti: un calo del 3 per cento che facilmente Tim Cook e compagni potrebbero assorbire. O addirittura compensare in altre geografie con un po’ di fortuna. In ogni caso, questo potrebbe comportare delle flessioni anche per il giro d’affari di chi produce i componenti e gli accessori per iPhone: un circolo vizioso che penalizzerebbe tutti. Di fatto, però, la propaganda di Trump finirebbe per creare il danno principale proprio a un’azienda statunitense: un risultato prevedibile, ma la partita è ancora tutt’altro che chiusa. Perché il terreno di scontro è decisamente più ampio rispetto alla sorte di una singola app o di un singolo marchio.