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Chi si occupa di scienze sociali sa già che non c’è niente di più materico delle parole: le parole disegnano le cose e a seconda di come sono – ben dette o no, giuste o il contrario – spingono le cose in un senso o nel suo opposto. È per questa ragione che oggi si ha così paura delle parole nuove? Che si teme che immetterne di diverse – più aperte, giuste, corrette – costruisca vocabolari di plastica e scassi l’ordine del mondo per come è sempre stato? Abbiamo scelto di non dire più mongola, lavandaia, pervertita e perché mai, allora, ci fa paura dire avvocata?   

Perché dire avvocata fa la differenza

Dire avvocata non mette a disagio perché suona male, perché non si è mai detto così o perché “allora, bisognerebbe anche dire giornalisto!”. Dire avvocata – e ingegnera, perita, medica, prefetta – significa riconoscere che gli schemi sociali che hanno retto fino a ieri oggi stanno mutando e significa legittimarne la mutazione. Non tutte le persone sono pronte, ci credono, lo fanno con naturalezza o lo vogliono fare. Non a caso, tutt’oggi quella “a” che piomba sul finale a volgere al femminile i mestieri tradizionalmente percepiti al maschile rappresenta per le donne una gran trappola. Dice infatti una ricerca che a presentarsi come avvocata, invece che avvocato, ci si caccia in una posizione di automatico svantaggio: si riscuote meno credibilità, si fa più fatica ad emergere, dunque alla fine si hanno meno clienti e una paga più bassa. Conseguenze da non credere! e invece sono vere, sono reali: sono documentate dai dati.

Il punto è proprio questo: dimostrare con metodo scientifico l’impatto che hanno le parole sui destini delle persone. Si tratta di una delle sfide nuove e interessanti della ricerca contemporanea: i dati oggettivizzano, prendono le misure, attribuiscono alle esperienze una realtà obiettiva, liberando in questo modo il racconto sulle parole dalle percezioni individuali, dai commenti personali, dalle speculazioni astratte o ideologiche, e ne abbiamo un gran bisogno.

Un linguaggio inclusivo fa bene a tutti (e a tutte) 

Il libro WORDS – cosa significa parlare inclusivo curato dall’esperta di linguaggio inclusivo Alexa Pantanella con il contributo di docenti e persone specialiste in linguistica, scienze psicologiche-sociali e formazione, parte proprio dalle evidenze scientifiche emerse da ricerche compiute o esaminate da Claudia Manzi, che insegna Psicologia sociale all’Università Cattolica di Milano e che del libro firma la prefazione. 

I dati sono cristallini e, sì, concludono dimostrando come modificare il linguaggio in maniera inclusiva porta effetti positivi nelle persone: utilizzare parole accoglienti – scrive Manzi – può far sentire a proprio agio e far star bene, può “far fiorire” le persone e in ultima analisi, renderle più produttive; inoltre, recenti evidenze mostrano che il linguaggio inclusivo favorisce il benessere e l’impegno verso l’organizzazione, indicando che comunicare in modo più equo produce dei benefici sia sull’organizzazione, sia a livello individuale. 

Nel progetto di ricerca E se fossi tu? (ultimo di una lunga serie di ricerche sul tema) promosso dal Gruppo Mediobanca, sono state, poi, indagate le ragioni per le quali alcune persone si sentono minacciate all’idea di usare un linguaggio più inclusivo. Le risposte, e sono interessanti, le trovate all’interno del progetto editoriale, che da quelle risposte ha colto lo spunto per capire come il linguaggio inclusivo possa generare benefici davvero per tutte e tutti. Insomma, dai dati sugli impatti del linguaggio stiamo via via ricevendo filoni ricchi di scoperte e di sorprese: la scienza ci spinge a uscire dal disinteresse e ci educa all’instabilità, perché la lingua non ha niente di fisso: è, anzi, perennemente in transizione. 

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Le parole fanno accadere quello che dicono

Ciascuna, ciascuno di noi deve poter usare sempre le parole che crede: calare dall’alto parole risolutive è un errore di prepotenza. Ma anche tagliare fuori dal linguaggio in voga chi è minoranza o non ci si riconosce, lo è. Quello che si può cercare di fare, allora, in questo ring polarizzato in cui a volte si cade quando si discute di  linguaggio inclusivo, è avere un po’più di consapevolezza del fatto che le parole non sono mai solo parole e che fanno sempre, ma sempre, accadere quello che dicono: le ricerche e l’esperienza sul campo concludono, per esempio, che quando le professioni sono espresse anche al femminile, le ragazze si sentono molto più incoraggiate ad avvicinarle e le bambine, sin da piccole, a sognarle. 

È un grande risultato.

“WORDS – cosa significa parlare inclusivo” è il progetto editoriale di Mediobanca curato da Alexa Pantanella, Formatrice ed esperta di comunicazione D&I, con il contributo di esperti ed esperte di linguistica e linguaggio inclusivo, sociologia e antropologia:

  • Francesco Ferreri, Antropologo specializzato in genere, sessualità e corpo
  • Lorenzo Gasparrini, Filosofo femminista e formatore
  • Giulia Lamarca, Psicologa, formatrice aziendale e content creator
  • Alessandro Lucchini, Linguista e fondatore di Palestra della scrittura
  • Claudia Manzi, Professoressa Ordinaria di Psicologia Sociale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

È possibile scaricare gratuitamente l’e-book sul sito Mediobanca a questo link: https://www.mediobanca.com/it/sostenibilita/words-cosa-significa-parlare-inclusivo.html

WORDS – cosa significa parlare inclusivo” è anche un podcast. Ascolta le 10 puntate disponibili sulle principali piattaforme podcasting:

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