* In collaborazione con Gabriele Bortolin, Sabrina Morlacchi, Francesca Ranieri, Federica Varone, Filippo Zelotti, Carolina Zucchini – studenti e studentesse dell’Università IULM
Come? Sette firme in un articolo? Non sarà un po’ dispersivo? Il rischio c’è.
Eh, quello c’è sempre. Anche impegnarsi per un linguaggio inclusivo comporta dei rischi: rigidità, intransigenza, poco ascolto, squalifica delle opinioni resistenti.
E proprio conoscere e gestire questi rischi è parte di un atteggiamento rispettoso e inclusivo.
E anche superare la dimensione individuale, perfino un po’ intimista della scrittura è coerente con la cultura DEI: dappertutto si osanna il lavoro di squadra, perché non metterlo anche nello scrivere? Specie se si parla del dialogo tra generazioni diverse.
Per questo ho invitato sei mie/i studenti dell’università IULM a condividere queste riflessioni, partendo dal paradosso del titolo: se parliamo da giovani possiamo alleggerire le differenze di età?
Anzitutto, per chiarezza:
– Bingiare, guardare senza sosta gli episodi di una serie tv;
– Cringiare: battuta o comportamento che suscitano imbarazzo e vergogna in chi osserva;
– Crushare: non c’entra con lo schiacciare, una crush è un’attrazione fortissima per qualcuno; si usa anche in forma personalizzata (Crush oggi m’ha scritto).
Sono termini della Gen Z. Ne abbiam parlato qui in un paio di recenti articoli, Gener-azione e Cringe.
Fin qui, niente di strano. Ogni generazione ha opinioni e abitudini diverse. Normale che abbia anche un proprio linguaggio. Con i miei colleghi stiamo lavorando a un dizionario minimo delle generazioni, che ci aiuta anche a riconoscere gli stereotipi – a volte dogmi – sottesi a certe forme espressive.
Quattro generazioni al lavoro
– Boomer (1946-1964), conservatori, resistenti al cambiamento, ossessionati dal lavoro;
– Gen X (1965-1980), ribelli, ostili ai valori precedenti, ma anche cinici, pessimisti, sfiduciati;
– Gen Y (1981-1996); narcisisti, pigri, scostanti, adulti rimasti un po’ bambini; sono i primi cresciuti con internet, hanno il surfing nell’anima;
– Gen Z (1997-2012), tecno-dipendenti, superficiali, poco impegnati, individualisti nonostante la potenza super-social dei loro avanzatissimi smartphone.
Intendiamoci, c’è qualcosa di vero nei luoghi comuni. Ma se di “qualcosa“ facciamo il tutto, ignoriamo altre verità. Per la Gen Z, per esempio, non vediamo i valori che possono insegnare a tutti: l’attenzione alla salute psicologica, all’ambiente. Se poi pensiamo che entro il 2030 saranno il 75% della forza lavoro nel mondo, costruire ponti con loro è un bisogno più che attuale.
Ma se continuiamo a pensare a ciò che le generazioni sono (diverse, straniere, migliori/peggiori, forti/deboli), se ci accontentiamo di segnare i valori e gli stili che rappresentano, le sclerotizziamo. Ne marchiamo le distanze, anziché aiutarle ad avvicinarsi. Se invece studiamo ciò che le generazioni fanno, o a ciò che potrebbero fare insieme, scopriamo prospettive, territori e linguaggi comuni. Anche con strumenti di connessione antichi come le parole. Le parole sono dappertutto, non si lasciano bloccare dalle classificazioni, le aggirano, le trasformano. Traducono, agganciano, creano significati condivisi, o condivisibili. Le parole avvicinano.
Individui e comunità
GABRIELE. Prima che giovani o anziani, sani o malati, alti o bassi, siamo tutti persone. Il pubblicitario Bill Bernbach diceva che l’essere umano è un insieme di due parti: quella che cambia, legata all’evoluzione tecnologica e alle mode; e quella che non cambia, più intima e personale, che coinvolge desideri e paure, immutata dalla notte dei tempi, e che è utile per (ri)avvicinare le generazioni. Quando comunichiamo, dovremmo tenere a mente questa parte. Così anche Pina, la collega un po’ noiosa prossima alla pensione, ci sarà più simpatica quando racconterà le sue avventure da studente universitaria. Le diversità ci rendono unici: emozioni e sentimenti ci uniscono.
Ci unisce anche il bisogno di essere rispettati come individui, pur sentendoci parte di una comunità. Magari non è la generazione, ma è l’azienda, la palestra, il partito, la squadra, il bar.
CAROLINA. Credo che questo bisogno sia di ogni tempo. Oggi un nonno potrebbe dire: «Quando ero giovane ci sentivamo parte di una comunità». L’adolescente risponde: «E oggi possiamo connetterci online, creando legami globali». Ecco che la fomo, la fear of missing out, diventa un modo per discutere l’importanza delle esperienze condivise. La chiave è l’apertura mentale: condividere significati e ascoltare senza pregiudizi. Se il dialogo si arricchisce, ciascuno può esprimere la propria cultura, il linguaggio si fa veicolo d’inclusione, e le differenze generazionali si trasformano in opportunità di comprensione reciproca.
Gen C, Gen T
Boomer, Gen X, Y, Z. Ma c’è già un’altra generazione che le attraversa tutte: la Gen C. C come Connected Customer. Siamo tutti Gen C: tutti abbiamo uno smartphone, magari usiamo un tablet, compriamo, lasciamo recensioni su viaggi, libri, ristoranti. C’informiamo, a volte votiamo online.
FILIPPO. Invece di rifrangere il pensiero in mille schegge, troviamo cosa ci accomuna. Che ne sa mio nonno dello smartphone, o delle recensioni su TripAdvisor? Però si può scavare più in profondità. Forse le cose che abbiamo in comune van cercate nella stanza degli oggetti perduti.
Paradossalmente, il tempo ci unisce. Ogni generazione lo rivendica come proprio: «Ai miei tempi si stava meglio»: il proprio tempo è stato il migliore. Eppure, in questo legame con il passato, si perde il vero tempo: il presente, che potremmo impiegare insieme per scoprire cosa ci lega davvero. Sì, perché mentre qualcuno guarda indietro e qualcuno in avanti, qualcosa sfugge a tutti. Noi Gen Z viviamo una transizione vertiginosa, dove il futuro sembra davanti ai nostri occhi, ma è già fuori portata. Ogni secondo è prezioso. La sensazione di non avere tempo è soffocante. Eppure spesso ci vengono offerti asettici paragoni col passato, invece di aiutarci a fermare il vortice, e supportarci nella ricerca del nostro tempo presente, in cui tra l’altro, tutti rientriamo. Il tempo non è un bene che qualcuno possiede, ma è uno spazio che possiamo abitare insieme. Generazione T.
Gentilezza e cultura dell’errore
Tutti aspiriamo a una comunicazione gentile come principio del vivere comune e del cooperare.
Vogliamo che ci sia riconosciuta la flessibilità come valore (es. smart working, lavoro per obiettivi e non per orari), specie dopo le rigidità imposte dall’esperienza pandemica.
FEDERICA. Dopo aver riconosciuto le differenze tra il proprio modo di comunicare e quello di persone di età diverse, servono flessibilità e spirito di adattamento. Ascoltiamo come l’altra persona parla e avviciniamoci al suo stile, senza stravolgere chi siamo e come ci poniamo. Il nostro modo di comunicare ci appartiene e ci definisce; imitare quello di un’altra persona sarebbe poco utile. Difficile che un boomer abbia gli strumenti per capire a fondo il linguaggio di un millennial, e viceversa. Ma non occorre replicare in ogni aspetto la comunicazione dell’interlocutore, può bastare individuare delle parole chiave e usarle per aprire il dialogo.
Non amiamo essere giudicati per gli errori che abbiamo commesso. Tutti vorremmo costruire insieme una vera cultura dell’errore, che lo valorizzi come fonte di apprendimento e non di colpa. Amiamo dare e ricevere feedback, sia tra pari, sia con chi ci sta sopra nella gerarchia, convinti che dal feedback, soprattutto dal quello critico, possa innescarsi un miglioramento vero.
Siamo anche molto legati alla tecnologia, in tutte le generazioni.
Vivere “onlife”
SABRINA. Ci vien detto che siamo superficiali, che pensiamo solo a rimanere connessi, perdendoci tra i miliardi di contenuti online. Forse non si è capito che con la tecnologia vogliamo creare comunità, perché insieme ci sentiamo più forti. Ma credo che oggi, tra generazioni diverse, ci stiamo accettando e rispettando di più (per esempio, anche noi siamo meno cringiati da chi ancora usa la parola cringe ☺).
Merito di questa trasformazione è anche il fatto che non si può più parlare di vita offline e vita online: secondo il termine coniato dal filosofo Luciano Floridi, siamo tutti onlife. Ogni giorno sperimentiamo esperienze ibride, la tecnologia è penetrata nella vita anche di coloro che erano restii. Così, il mondo che vedevamo noi, Gen Z, è oggi più chiaro anche agli occhi dei grandi, mentre noi possiamo capire meglio le loro posizioni, anche grazie ai loro contributi online. Siamo in un circolo. Abbiamo ricominciato a confrontarci. Forse non siamo più così scandalizzati gli uni dagli altri: stiamo imparando a imparare gli uni dagli altri.
Imparare a imparare
E come dimenticare l’intelligenza artificiale?
Provare una diffidenza snobistica su questo tema significa auto-escludersi. Ed è difficile includere chi vuol restare escluso. Mo Gawdat, guru dell’AI, ha dichiarato in un recente convegno: «AI will not replace you at work, but those who effectively use AI will replace those who don’t».
Tutti dobbiamo rimetterci a studiare per vivere il cambiamento. Ecco un altro valore che unisce le generazioni: la passione per lo studio, l’apprendimento continuo e consapevole. Dove il valore di “con-sape-vole” è proprio nella struttura della parola: c’è il “con”, si fa insieme; c’è il “sape”, la conoscenza; e c’è il “vole”, il desiderio d’imparare.
Apprendimento reciproco
Nella letteratura troviamo molti esempi di scontri, ma anche di scambi proficui tra generazioni.
Pensiamo ai Malavoglia. Padron ’Ntoni e ’Ntoni, nonno e nipote, due modi opposti di vivere e di sentire: da una parte tradizione, stabilità, un mondo limitato ma sicuro, il paese, la casa; dall’altra la smania di cambiare, di affrontare l’ignoto. Stesso nome, così uguali, così diversi.
Nell’Odissea, invece, Mentore è il vecchio saggio cui Ulisse affida il figlio Telemaco. L’atto di fiducia più estremo e profondo. Credo che oggi tra Telemaco e Mentore ci sarebbe uno scambio: si guiderebbero a vicenda, al contempo imparando e insegnando. Sarebbe mutual mentoring.
Per questo in università, se nei Master incontro anche persone di esperienza, nei corsi triennali la distanza è notevole. Spesso allora invito ex studenti da poco laureati, ai primi anni di carriera, ad affiancarmi a lezione: una mediazione culturale che aiuta me a confrontarmi con una relazione peer-to-peer, e ad assorbirne alcuni spunti didattici, e permette agli studenti di verificare l’effettiva applicabilità delle teorie, con testimoni a loro vicini e già autorevoli.
FRANCESCA. Tra docente e discente c’è una reciprocità che arricchisce entrambe le parti. Questo scambio e il conseguente, inevitabile, processo di crescita è molto evidente nella condivisone di esperienza. Se fino a qualche decennio fa erano le generazioni precedenti a guidare le successive, oggi le prime hanno tanto da apprendere dalle seconde. A volte i più grandi lasciano ai giovani il ruolo di docente per mettersi nei panni del discente, o per pura curiosità o perché (disperatamente) bisognosi di lezioni su tecnologie, strumenti, linguaggi attuali. Ma la bellezza del mutual mentoring sta proprio nel fatto che, subito dopo, tocca a noi giovani tornare discenti per lasciarci guidare dall’esperienza: chiediamo consigli a genitori, nonni, professori, manager. È un viaggio che fa crescere chiunque sia disposto ad ascoltare.
Learn, earn, return: da linea a circolo
La pedagogia del ’900 di marca americana scandiva la vita in tre fasi, learn, earn, return. La fase dedicata all’apprendimento (scuola, università); quella dedicata a mettere a frutto ciò che si è imparato; e poi la restituzione, che era degli anziani, dei mentori, appunto.
Oggi questo processo non è più lineare (forse non lo è mai stato del tutto), ma circolare: se sappiamo confrontarci un po’ e aprirci con le persone che incontriamo, in ogni fase della vita impariamo, in ogni fase guadagniamo, e in ogni fase restituiamo alle altre generazioni.
Credo sia questo un augurio che possiamo scambiarci, noi persone di tutte le generazioni: in ogni età, saper mettere in circolo le nostre conoscenze e le nostre passioni.
Se poi sentiamo un boomer dire che ha cringiato, siamo benevoli: non vuole sembrare giovane (cosa neanche poi così grave), forse vuol solo divertirsi. E imparare.