Ci si può mostrare vulnerabili sapendo che si sta dando, per paradosso, una dimostrazione di carattere? Un leader può mettere in campo la propria vulnerabilità puntando a costruire team più forti e coesi? E un’azienda raggiungere risultati incentivandola nelle persone che vi lavorano? Le risposte sono tre sì, e non si tratta di tre sì semplicistici: la vulnerabilità si candida a diventare un attributo necessario del lavoro nuovo, di quella mutazione culturale e organizzativa che sta investendo le professioni e le aziende. Vulnerabilità è il titolo del saggio (FrancoAngeli) in cui la psicologa del lavoro Biancamaria Cavallini – anche Responsabile Scientifica, Consigliera d’Amministrazione e Direttrice Operativa di Mindwork – ha destrutturato e ricomposto con sistematicità il concetto, restituendogli il diritto di abitare quel cambio culturale che, nelle organizzazioni, sta cominciando a portare l’individuo e la sua soggettività – vulnerabilità inclusa – in primo piano, nella prospettiva di un lavoro più accogliente, più sostenibile, più umano.
Anzitutto, liberiamo il campo dagli equivoci. Cosa intende per vulnerabilità psicologica e perché non c’entra nulla con la fragilità?
La vulnerabilità è spesso fraintesa, associata erroneamente alla debolezza e confusa con la fragilità. Diciamo che vulnerabilità è la risultante di tre fattori che, peraltro, ci raccontano quanto la vulnerabilità sia, in realtà, potente: l’apertura al rischio e all’incertezza – ovvero, quando non sappiamo come andrà ciò che stiamo per dire o per fare -, l’abbandono della propria zona di comfort, infine l’apertura emotiva. In sintesi, si è vulnerabili sul piano psicologico quando si mettono in campo delle emozioni e ci si apre all’incertezza assumendosene il rischio. Volendo sintetizzare al massimo, direi che sentirsi vulnerabili significa sentirsi esposti.
Mi convinca dell’utilità di sentirsi esposti in organizzazioni complesse, le aziende appunto, dove tendenzialmente si associa alla vulnerabilità la debolezza e dove la vulnerabilità è percepita contraria alla performance. Da una recente indagine: una persona su due lascia il lavoro perché prova un forte disagio emotivo.
È vero, spesso le aziende sono luoghi dove la vulnerabilità non viene premiata e, infatti, io credo sia sbagliato esporsi dove non si sente la giusta fiducia e sicurezza nel farlo. Detto questo, ognuno di noi ha il potere di mostrarsi vulnerabile in piccole dosi e, quindi, di fare degli atti di coraggio fuori dalla propria zona di comfort, che permettono di progredire nella relazione con il mondo, di imparare a conoscere in maniera diversa e nuova le cose, le persone, le situazioni. È l’incontro con il nuovo il grande guadagno indotto dalla vulnerabilità. Uscire dalla propria zona di comfort genera ansia e paura, ma va detto che dentro la propria zona di comfort nulla accade se non ciò che già si conosce.
E come si supera la paura di esporsi? C’è anche un tema di misura: se non si mette un limite all’aprirsi si possono generare disastri rispetto alla propria credibilità, alla fiducia del gruppo, alla tenuta del progetto.
Bisogna saper contestualizzare la vulnerabilità e, comunque, la vulnerabilità senza limiti non è vulnerabilità. Un errore, poi, è mostrarla senza essersi sincerati prima che l’altro sia in grado o abbia voglia di accoglierla.
A proposito degli altri, mostrare la propria vulnerabilità significa accettare quella delle persone che ci lavorano accanto. Non è semplice, non è automatico, non è scontato che succeda.
La vulnerabilità altrui è spiazzante e proprio per questo non è facile accoglierla. Poiché non sappiamo come gestirla, di solito succede che o la ignoriamo o la banalizziamo. E, invece, dire al o alla collega che stiamo osservando e stiamo cogliendo la sua vulnerabilità può essere potente. Significa riconoscere quello che sta vivendo. Noi pensiamo che sul lavoro si debba in primo luogo fare: invece, in questo caso dichiarare che si sta comprendendo quello che la persona ci sta rivelando di essere cambia la relazione.
Aldilà della postura individuale, è comunque necessario che in azienda si costruisca un clima di sicurezza psicologica che faccia sentire le persone libere e sicure nell’esprimersi.
Occorre creare le condizioni in cui le persone si sentano libere di esprimere idee e opinioni anche divergenti, di raccontare parti di sé, di mostrare la propria autenticità.
Perché parliamo proprio ora, in questo momento storico, di vulnerabilità? Dieci anni fa non sarebbe successo, e anche oggi sembra rivoluzionario farlo. Cosa sta mutando nel mondo del lavoro?
Sta cambiando la cultura stessa del lavoro. Oggi si sono abbattuti i confini tra noi e la professione: abbiamo interiorizzato il lavoro, che è diventato parte del nostro essere, non solo del nostro fare. Per cui in azienda portiamo la nostra soggettività, la nostra unicità, il nostro mondo interiore e vogliamo esprimerlo, contando che sia riconosciuto.
E perché le aziende dovrebbero incentivare l’espressione della soggettività di chi vi lavora?
Perché sta arrivando una forte spinta dal basso che lo chiede e perché è sempre più evidente che non si può lavorare bene se non si sta bene, che significa vedere rappresentati e accolti anche i propri bisogni psicologici, le emozioni, persino le paure ed esprimersi con maggiore libertà. Le aziende più grandi investono in benessere delle persone perché sanno che vuol dire investire in risultati.
In un capitolo affronta anche il tema della leadership vulnerabile. Non è rischioso che persino il leader possa approcciare la vulnerabilità propria e degli altri come una dimensione orientabile ai risultati?
In realtà è una provocazione. Nel libro mi chiedo “Abbiamo bisogno di leader vulnerabili?” e non nomino, appunto, la leadership, bensì il leader vulnerabile. Il quale deve prestare molta attenzione e mettere dei confini, in quanto è concreto il rischio di contagio emotivo, di perdita di autorevolezza, di diffusione della responsabilità nel team, il quale ha bisogno di credere che il suo leader sia anche forte, vulnerabile e forte. Dopodiché, le due attitudini possono legarsi. Chi tra i leader riesce ad aprirsi anche alla vulnerabilità, propria e altrui, è un leader che sostiene la coesione del gruppo, potenzia la fiducia reciproca, rafforza le relazioni in vista dei risultati, costruisce un clima dove dove chiunque è accolto nella sua tridimensionalità di essere umano, dove si può apprendere ed è consentito sbagliare, dove ci si sente sicuri quando ci si espone, dove, dunque, ci si apre all’innovazione.
Qual è la condizione maestra per essere leader vulnerabili e forti?
Conoscersi molto e sapersi dosare altrettanto.