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Ha la bellezza di chi sa tenere insieme l’imperfezione e la bellezza, appunto, l’armonia e le ferite, perché ha imparato che un incidente stradale che toglie per sempre l’uso delle gambe può generare germogli. Sui social le storie dei viaggi in carrozzina che fa insieme al marito (era il suo fisioterapista nei nove mesi della riabilitazione ospedaliera seguita all’incidente, una decina di anni fa) sono sorsi di vitalità per i tanti che li seguono. Appena è arrivata la piccola Sophie, che oggi ha due anni, hanno lasciato tutto e sono partiti per il giro del mondo. Deserti e nevi, metropoli e zone remote, altezze e mari: «Il limite che io ho, perché io ho un limite abbastanza importante, ha fatto sì che succedesse tutto questo. Se io non posso camminare, cos’altro posso fare? Mi sono chiesta. E ho cominciato a fare tutto il resto». Giulia Lamarca è psicologa, formatrice aziendale, content creator. È autrice del blog My travels the hard truth e, a oggi, ha conosciuto 5 continenti, 29 Paesi, 90 città, percorsi con la consapevolezza che è quando ci si allontana da casa e dal comfort che meglio si vede se stessi. 

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Giulia Lamarca (crediti immagini: Facebook e Instagram)

Il giro del mondo di Giulia Lamarca

Giulia, cos’è il viaggio? Evasione? Terapia? Conoscenza di sé? Oppure, cos’altro? 
Per me il viaggio è libertà. Dico sempre che per me viaggiare è stato come tornare a camminare. Con una disabilità come la mia, ci si paralizza in tutti i sensi, e ci si circonda di limiti. Per me viaggiare ha significato continuare a esplorare, anche nuove parti di me, perché ogni volta che viaggi scopri sì un nuovo Paese e una nuova cultura, ma anche una nuova dimensione di te stessa. 

La scintilla dei tuoi viaggi: quando è stato che hai pensato al viaggio come rinascita possibile?
Da giovane, ho sempre viaggiato in camper con i miei, eravamo una famiglia che difficilmente dormiva due notti nello stesso posto. È stato Andrea, mentre ero in ospedale, a buttarmi lì: Partiamo per l’Australia! Facciamo questo viaggio insieme! A giugno sono stata dimessa, poi lui si è laureato. Siamo partiti il Natale dopo. Da quel primo viaggio è nato tutto.

C’è un paese che ti ha cambiata più di altri?
L’Australia, anzitutto. Forse proprio perché è stato il primo viaggio, il primo intercontinentale, mi ha aperto gli occhi sul fatto che potevo essere chi volevo. Ero da poco in carrozzina e quando mi muovevo in Italia non vedevo gente come me in giro per le strade. Ecco, in Australia improvvisamente le vedevo e, soprattutto, non coglievo lo sguardo imbarazzato della gente su di me. Quello mi ha insegnato molto. Dopo cinque anni, la Thailandia mi ha fatto scoprire il piacere di andare di nuovo in acqua, di fare il bagno, di vivere la spiaggia, perché fino a quel momento non riuscivo a farlo: mi vergognavo molto del mio corpo, mi vergognavo di farmi vedere in bikini. E poi il Giappone. Il Giappone mi sta cambiando la vita, credo per la cultura delle gentilezza. Ogni volta che torno in Giappone, mi rendo conto di quanto sia prezioso e bello essere gentili e destinare del tempo agli altri. 

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Tu sei psicologa. Che risorse e spazi psichici si attivano durante un viaggio?
Moltissimi. Il più importante è il senso del tempo. Appena si parte per un viaggio, il tempo non scorre più come scorreva fino al minuto prima. Si entra in una dimensione molto particolare, la dimensione del qui e ora, favorita dalla consapevolezza che quello che si sta vivendo nel momento non tornerà più. Ciò rende molto viva la presenza di quel tempo. È una dimensione a se stante che si sperimenta nel viaggio e, secondo me, dà modo di vivere se stessi, e anche le persone che viaggiano con noi, in maniera diversa. 

Laspetto più complesso del viaggiare in carrozzina qual è?
La cosa più difficile è partire. Bisogna togliersi dalla testa l’idea che se studi per bene il Paese, se indaghi fino alla fine e organizzi tutto il viaggio per tempo e con sistematicità, sarà tutto accessibile e agibile, perché tanto non accadrà mai: ci sarà sempre un lavori in corso davanti a un punto dove volevi andare che non hai potuto pianificare. Il primo ostacolo di viaggiare in carrozzina è dire, mano sul cuore: di sicuro ostacoli ce ne saranno, ma io parto lo stesso.

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Difficoltà tecniche?
Ce ne sono molte. L’assistenza, per esempio. L’assistenza su treni e aerei va prenotata diverse ora prima, anche due giorni prima: insomma, se vuoi prendere un volo interno e scegli di farlo il giorno prima per il giorno dopo, diventa un problema. Dopodiché, io faccio a meno di facilitazioni specifiche, come gli hotel specifici per persone con disabilità o per persone con bambini piccoli, perché mi piace mettermi alla prova e vivere una certa normalità, anche se può sembrare brutto usare un termine del genere. In viaggio, sento che non mi servono aiuti specifici, ma dimensioni che incontrano le esigenze di tutta la famiglia. 

Qual è il Paese più accessibile rispetto a persone disabili, ma anche bimbi piccoli che hai incontrato? 
In assoluto, la Corea del Sud e il Giappone.

Avete fatto letteralmente il giro del mondo. Cosa resta dentro di un’esperienza umana così travolgente quando si rientra nella routine? 
Resta il fatto che lo puoi fare. Il giro del mondo è un po’ il sogno di tanti, una specie di ideale comune, ma pure un’esperienza complicata pensata come adatta a pochi. Nel momento in cui la compi, è come se si sciogliesse un nodo: “Ma allora è possibile!”. Allo stesso modo, vivi in così tanti spazi diversi da renderti conto che quello che ritenevi il tuo mondo è, in realtà, veramente un piccolissimo spicchio di mondo. Dopo aver fatto il giro dei cinque continenti non ti senti italiano, non senti di appartenere a un solo Paese: appartieni al Pianeta. Io percepisco di appartenere ai tanti posti del mondo dove mi sono sentita a casa. 

E il fatto di essere stati a lungo in giro per il globo con una bambina piccolissima che tipo di eredità ha lasciato alla vostra famiglia?
Siamo partiti che Sophie aveva tre mesi. Ha compiuto un anno a Bali e lì, in Indonesia, ha cominciato a camminare. A noi resta la convinzione che per crescere un bambino servono l’amore e le persone, ma non una casa fissa e men che meno la routine. Viaggiando capisci quanto conta godere della presenza delle persone che ami. Poi, dove sei è tutto secondario. 

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Ti è capitato, durante un viaggio, di esplorare e conoscere parti di te a cui non saresti, altrimenti, arrivata?
Certo, diverse volte. Io vengo fraintesa tantissimo. Sembro essere una persona super determinata e questa determinazione è così forte che a volte la gente mi vede anche aggressiva. In realtà, credo di essere molto dolce: è stato il Giappone a tirarmi fuori questa attitudine, esattamente come l’India mi ha fatto prendere contatto con la spiritualità. Io ero molto credente, poi ho perso la fede, in seguito l’ho riacquistata. Ricordo che eravamo in India, appunto, diretti al Gange. Dicevo ad Andrea: No, neanche lo tocchiamo, il fiume, è inquinatissimo. E poi, invece, una volta arrivati lì, vedendo quella moltitudine di persone praticare i riti, ho avvertito una spiritualità molto intensa. Ecco, mi sono detta, non si può pensare che non ci sia qualcosa. Se arrivi in certi posti e hai cuore, ti senti toccato da qualcosa che è grande. 

Muoversi nel mondo significa avere il coraggio di superare i propri limiti, così come di rispettarli. Tu come ti poni rispetto ai limiti?  
Io dico che i limiti esistono, che è giusto conoscere i propri. Anzi, bisogna conoscerli molto bene, non avere paura di ammetterli a se stessi e davanti agli altri. Ma i limiti vanno scavallati, perché sono quella cosa che ti permette di guardare dall’altra parte.