Tra le aziende selezionata da Hubble, il percorso di accelerazione di Nana Bianca. La sua founder si è formata nel mondo della moda. «Ora vogliamo riscriverne i canoni»
«Durante la pandemia sono salita nella soffitta di casa. E mai mi sarei aspettata la quantità di vestiti vintage che mia mamma vi aveva accumulato. Una selezione fantastica». Nel luogo dove di solito si accumulano polvere e ricordi, è nata un’idea. Gaia Rialti, 31 anni, è la founder e Ceo di Menaboh, una startup early stage che sta partecipando al batch in corso di Hubble, il percorso di accelerazione di Nana Bianca a Firenze. Il suo è un ecommerce vintage, ispirato all’economia circolare della moda. «La mission è mantenere in circolazione più a lungo possibile i capi», ci spiega. Un’industria, quella della moda, in cui l’Italia eccelle sta facendo i conti – come tutte le altre del resto – con il proprio impatto ambientale. Se parliamo soltanto di abbigliamento sulla bilancia, ogni anno, si calcolano 40 milioni di tonnellate di rifiuti tessili. Fast fashion, consumismo, chiamatelo come volete. Non è sostenibile, punto. «È partito tutto dentro di me: quasi due anni fa mi sono imposta di non comprare più cose nuove».
Moda responsabile
Toscana di Montevarchi, alle porte di Firenze, Gaia Rialti è una giovane imprenditrice cresciuta nel mondo della moda, a partire dal percorso di studi. «Ho fatto un master in Polimoda. Di italiane eravamo in due appena. Da lì ho avuto la possibilità di fare uno stage in Ferragamo». Poi il passaggio in L’Oréal. «Ho proprio cambiato lavoro, mi sono spostata sul settore beauty». La pandemia, come per molte altre persone, ha significato un ritorno al nido, a casa dei genitori. «Non aveva senso pagare l’affitto per stare chiusa in casa».
Il primo draft di Menaboh, se lo ricorda, risale ai tempi di Polimoda. «Volevo proporre una nuova esperienza online legata al concetto di moda responsabile. C’era già la proposta della nostra mistery box». Perché come in tutte le piattaforme di acquisti online, per differenziarsi dai giganti, è fondamentale mostrare da subito la propria impronta. «Le modalità sono due: o acquisti il singolo capo, oppure compili una survey di 4 minuti in cui semplicemente ci fai capire il tuo stile scegliendo tra un set di immagini di abbigliamento». A quel punto si sceglie un capo e gli altri tre li sceglie Menaboh per te.
Abbonarsi alla second hand economy
In prospettiva l’obiettivo di Menaboh è lanciare un servizio in abbonamento in modo non soltanto di rimettere in circolazione abiti vintage, ma anche eventualmente di ritirare capi che le clienti non utilizzano più. La second hand economy è un trend in rapida crescita che sta investendo diversi prodotti di consumo, dalla moda fino all’elettronica. Grazie a una maggiore sensibilità sulle tematiche ambientali, ci siamo tutti resi un po’ più conto del fatto che “usato” non significa “da buttare”.
Menaboh è una startup guidata da Gaia Rialti. Al suo fianco troviamo l’altra Cofounder Teodora Sevastakieva e la CMO Gabrielle Mastronardo, americana con un’esperienza in Zalando. Il nome della startup è un evidente richiamo al settore della moda. «Con Menaboh vogliamo riscrivere i canoni del settore. La “h” finale l’abbiamo usata perché vogliamo portare un qualcosa di inaspettato». Al momento l’azienda tiene un magazzino dove si sono accumulati 500 capi di abbigliamento vintage (e non solo) in attesa di tornare negli armadi. E quegli abiti che proprio non si possono rimettere in circolazione? «Non li butto, li do in beneficienza».
Non si butta nulla
«Per gli abiti vintage non prendiamo nulla che non abbia almeno 20 anni di storia. Mi rifornisco da un’associazione di donne che mi ha donato questi vestiti». C’è poi la parte di second hand economy: sono i capi su cui Menaboh interviene grazie al lavoro di una sarta, aggiungendo bottoni o tocchi di stile. «E poi collaboro con circa 30 brand che possono vendere sul nostro ecommerce le collezioni invendute. Ad oggi tutti i capi che abbiamo rilavorato sono frutto del passaparola. E così dovrà diventare un domani la community di Menaboh». A completarne il team ci sono Matilde Di Bella e Renata Rubio.
All’interno di Hubble, come sempre ci capita quando ne raccontiamo i protagonisti, il valore aggiunto è la connessione con un’ecosistema ricco di spunti. «È per noi il punto di partenza anche perché il contributo economico ci serviva per fare attività di marketing. Ti confronti. Niccolò Cipriani di Rifò (altra startup attiva nell’ambito della moda sostenibile, che ha partecipato a un batch precedente di Hubble, ndr) mi ha sempre detto: devi rompere le scatole. Bisogna chiedere, chiedere, chiedere. E mettersi sempre in prima fila. Perché la vita di chi fa startup è come le montagne russe: un giorno fai la cosa più figa del mondo, mentre quello dopo…».