Rinviata di anno in anno, alla fine, sembra che dal primo luglio di quest’anno il governo sceglierà di introdurre la cosiddetta sugar tax, ovvero un’imposta correttiva sul consumo di bevande analcoliche edulcorate. La misura, introdotta in una cinquantina di Paesi nel mondo (come UK e Messico), ha come obiettivo prioritario quello di ridurre l’acquisto di bibite zuccherate per tutelare la salute delle persone. Aumentandone il costo, la conseguenza auspicata dai governi sarebbe quella di un calo dei consumi. Da anni l’industria si oppone a questa misura e ha di recente chiesto un’ulteriore proroga dell’entrata in vigore della sugar tax.
Sugar tax: la posizione dell’industria
«Si tratta di una incertezza che non è più sostenibile per il comparto e la filiera, una situazione pericolosa che va disinnescata al più presto – ha detto Giangiacomo Pierini, Presidente di ASSOBIBE, consociata di Confindustria -. Abbiamo bisogno di risposte chiare, prima che sia troppo tardi. Siamo consapevoli che una cancellazione della tassa richiede uno sforzo importante, ma confidiamo almeno in uno slittamento di ulteriori 6 mesi».
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I dati che fornisce ASSOBIBE parlano di 5mila posti di lavoro a rischio, di un crollo degli acquisti di materia prima superiore ai 400 milioni di euro, con un freno agli investimenti da 46 milioni. La stessa associazione fornisce il giro d’affari del comparto: la produzione e la vendita di bevande analcoliche in Italia vale 4,9 miliardi di euro.
Di questi, 800 milioni di euro sono generati direttamente dalle imprese di produzione di bevande analcoliche, 1,1 miliardi di euro dalle aziende che forniscono le materie prime necessarie alla produzione, e i restanti 3 miliardi di euro dalle fasi di commercializzazione dei prodotti finiti. Per ogni euro di valore aggiunto prodotto dalle società di produzione viene generato un equivalente di 5,4 euro lungo tutta la filiera.
Non mancano le posizioni critiche sugli effetti di questa imposta. La sugar tax ha un obiettivo chiaro come quello della salute delle persone. Queste ultime, tuttavia, di fronte a beni tassati difficilmente saranno spinte a seguire abitudini alimentari migliori. Nella maggior parte dei casi virano su altri prodotti non tassati.