Per la nostra rubrica “Italiani dell’altro mondo” intervista ad una delle eccellenze mondiali nella salute, oggi a Cambridge per guidare la ricerca di Moderna. «Le collaborazioni sono essenziali. Molte delle cose che abbiamo fatto non le avremmo potuto fare da soli»
«Sappiamo che c’è una tendenza diffusa a non assumersi il rischio. Ma farlo è l’unico modo per innovare. È un tema di cultura: gli errori non devono penalizzare perché fanno parte del processo. Lo vedo anche nella mia vita di tutti i giorni. Invece di restare su posizioni conservative bisogna sempre provarci». È un ottimista per natura Andrea Carfì, scienziato italiano oggi di base a Cambridge, nello stato americano del Massachusetts. Carfì è a capo del team di ricerca sulle malattie infettive dell’azienda Moderna. Ed è colui che ha messo a punto il vaccino contro il COVID-19 con l’uso della tecnologia Rna messaggero.
Siciliano di nascita e globetrotter per professione. Carfì, in tasca una laurea in chimica all’Università di Pavia e un dottorato di ricerca in biologia all’Institute of Structural Biology di Grenoble, negli anni ha lavorato in Merck, Novartis e GSK. Per poi scegliere di diventare startupper e abbracciare la sfida di una biotech come Moderna. Ma quel suo ottimismo trasuda consapevolezza. Una visione lucida oltre i facili entusiasmi. «In effetti soprattutto di fronte ad una nuova tecnologia come quella rivoluzionaria dell’rna messaggero, quando si fa qualcosa di nuovo c’è molto da esplorare. Ecco, la sfida più complessa per un ricercatore è abituarsi a essere in una situazione non confortevole», precisa Carfì.
“La sfida più complessa per un ricercatore è abituarsi a essere in una situazione non confortevole”
Fare, rifare e alla fine farcela. Perché se c’è un aspetto che più contraddistingue questo talento italiano schierato sin dagli inizi dell’emergenza contro il COVID-19 è proprio questo ottimismo consapevole, un racconto mai sopra le righe. «Sicuramente nelle biotech – e quindi anche in Moderna – c’è la convinzione di assumersi le responsabilità e di insistere nel trovare soluzioni non necessariamente facili. Questa componente è una parte fondamentale di quello che facciamo», dice Carfì, tornato in Italia per il lancio dell’ITIR, cioè dell’istituto dedicato all’innovazione trasformativa promosso dall’Università di Pavia. «La formazione in Italia per me ha avuto un ruolo fondamentale, così come per la mia carriera nel campo della ricerca. Fin dal liceo la chimica è la materia che più mi appassionava. All’Università di Pavia, dove mi sono laureato, ho trovato un professore che ha acceso la mia curiosità nello scoprire l’ignoto», precisa Carfì.
E pensare che lui di contesti lontani dalla confort-zone ne ha vissuti molti negli ultimi anni. Soprattutto da quando ha preso la guida di quel laboratorio di ricerca al quale era appeso se non il destino dell’umanità, quanto meno l’evoluzione dell’emergenza pandemica. Essere al centro del mondo, soprattutto di quello segnato dal COVID-19. «Ma per noi tutto è partito molto tempo prima. All’inizio Moderna è nata come una piccola azienda. Siamo stati i primi a entrare in uno studio clinico legato all’m-RNA. Il mercato farmaceutico, non solo quello legato al biotech, era scettico soprattutto per i problemi legati alla produzione. Ci vedevano come nani sulle spalle dei giganti», dice Carfì.
Professore, quando avete compreso che qualcosa era cambiato e che i vostri studi potevano fare la differenza?
Quando la situazione si è aggravata diventando pandemia e internamente abbiamo deciso come azienda di dare il nostro contributo. Ci siamo convinti di potercela fare e che per la fine dell’anno avremmo potuto avere un vaccino. Avevamo già una piattaforma nata nel 2010. Io sono arrivato nel 2017 e a quel punto la tecnologia non era ancora pronta, ma con un lavoro continuo e con studi clinici abbiamo imparato tantissimo. Abbiamo capito che eravamo a un punto di svolta con risposte immunitarie forti.
Come si lavora in una biotech che nasce quasi come startup?
Un’azienda come la nostra vive in una perenne pandemia. Già prima lavoravano su ritmi incredibili. Poi con quel senso di responsabilità nessuno voleva perdere un minuto. Il fattore tempo – cioè far accadere velocemente le cose e arrivarci da pionieri battendo sentieri inesplorati – è essenziale.
“Il fattore tempo, far accadere le cose e arrivarci da pionieri battendo sentieri inesplorati, è essenziale”
La differenza rispetto ai Golia dei grandi colossi farmaceutici?
In passato ho lavorato in grandi multinazionali. Quando passi ìn una startup biotech capisci che c’è un modo di lavorare diverso. Ci si prova a spingere oltre con metodo e visione, ma anche con un pensiero laterale che spinge a ragionare oltre gli schemi.
Cosa ricorda di quel drammatico periodo?
Abbiamo testato la nostra velocità e non ci siamo mai arresi. Per farvi capire i tassi di crescita: nel mio team all’inizio avevo una sola persona e durante il periodo dell’emergenza pandemica siamo passati ad una trentina, mentre ora siamo in centosettanta.
Ci racconta le sue giornate nelle fasi più dure?
Ci sentivamo addosso i riflettori del mondo, ma abbiamo sempre provato a mantenere alta la concentrazione. Ricordo i ritmi forsennati, al lavoro dalle cinque e mezza del mattino e fino alle tre di notte. Un tempo infinito che però volava via.
“Abbiamo lavorato dalle cinque e mezza del mattino alle tre di notte. Un tempo infinito che però volava via”
Che competenze richiede al suo team?
L’attenzione massima ai dettagli. Cioè lo spirito critico. Alla base ci sono quei valori che per me sonio fondanti: curiosità estrema, collaborazione trasversale, assunzione di responsabilità. Mi aspetto una squadra che non cerchi necessariamente la via più facile, ma che scelga con consapevolezza i rischi. Chi lavora con me accetta di vivere in un ambiente competitivo e stimolante, con ritmi sostenuti. L’attenzione alla sicurezza è un’ossessione fondamentale.
Hard skill o soft skill?
Le competenze tecniche sono fondamentali perché per fare scienza ci vogliono persone estremamente competenti, anche in materie molto specialistiche e verticali. Ma questa è la base. Oggi in squadre così internazionali e diversificate si chiede qualcosa di più. Oggi per fare la differenza devi saper lavorare con gli altri.
Che tipo di lavoro svolgete nei vostri laboratori?
Intanto non è più soltanto un lavoro di scienza individuale, ma è un lavoro di partnership, di alleanze, di gioco di squadra.
Come cambia la tecnologia?
Quella più performante è basata su piattaforme aperte. Questa è stata la nostra scelta legata per esempio alle malattie infettive. Molte delle cose che abbiamo fatto non le avremmo potuto fare da soli. Oggi tutta la tecnologia che si sta diffondendo maggiormente nei laboratori accademici e nell’industria della salute legata all’mRNA messaggero comporta la protezione delle scoperte, ma anche la necessità di basarsi su collaborazioni essenziali.
“Le collaborazioni sono essenziali. Molte delle cose che abbiamo fatto non le avremmo potuto fare da soli”
Di cosa è più orgoglioso?
C’è un aspetto che guida le azioni di Moderna, voluto fortemente dal nostro CEO e legato ad un concetto molto anglosassone di giving back. La restituzione sta nella collaborazione su programmi clinici senza un necessario interesse legato a finalità economiche.
La sua prossima sfida?
Fare ancora qualcosa di straordinario.