A iniziare dallo sfruttamento dei dati raccolti con le soluzioni digitali, su cui c’è ancora molto da fare. Lo racconta a Startupitalia Chiara Sgarbossa, Direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità della School of Management del Politecnico di Milano in occasione del convegno “Rivoluzione Connected Care: se non ora, quando?”
Poche parole chiave ma fondamentali per capire quali saranno i prossimi passi da compiere per realizzare una vera e propria rivoluzione “connected care”. Le elenca Chiara Sgarbossa, Direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità della School of Management del Politecnico di Milano in occasione convegno online “Rivoluzione Connected Care: se non ora, quando?” durante il quale sono stati resi noti i risultati di una ricerca condotta dello stesso osservatorio. “Affidabilità, per la ricerca di informazioni online; omnicanalità, associata ai servizi digitali al cittadino; nuovi modelli organizzativi, supportati dalla telemedicina; certificazione, necessaria per le app per la salute; conoscenza e consapevolezza, per chatbot e assistenti virtuali; e validazione clinica e rimborso, per le terapie digitali”. Sgarbossa spiega a Startupitalia anche come queste non siano le uniche sfide su cui lavorare per arrivare a un reale sistema di “connected care”, perché “molto resta da fare anche riguardo allo sfruttamento dei dati, generati da questi servizi digitali”.
Sperimentazioni robuste per le terapie digitali
Ma andiamo per punti. A partire dalle terapie digitali, un trend che sta esplodendo a livello mondiale, ma ancora agli inizi in Italia. Si tratta di soluzioni tecnologiche, fra cui app e videogiochi, che devono essere clinicamente certificate e autorizzate dagli enti regolatori, con lo scopo di aiutare i pazienti nell’assunzione di un farmaco, aumentando l’aderenza alla terapia o modificandone i comportamenti. In alcuni Paesi, come Francia, Germania e Stati Uniti, le terapie digitali stanno già accompagnando e in parte sostituendo le terapie tradizionali.
Su questo punto Sgarbossa ricorda la necessità di sperimentazioni cliniche robuste, come avviene già per i farmaci, che dimostrino la validità delle terapie digitali che per circa un medico su due avranno un grande impatto nei prossimi 5 anni. “I trial clinici sono necessari per ottenerne la validazione clinica; è però anche importante che ci sia rimborsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale (SSN) e la prescrizione da parte del medico” afferma. “Su questo ultimo aspetto, il percorso è simile a quello battuto dalla telemedicina, soluzioni che fino a non molto tempo fa non venivano riconosciute del SSN alla pari di una prestazione svolta di persona e che ne impedivano quindi la diffusione”.
Dai dati emerge come le terapie digitali più interessanti per i medici siano le soluzioni per il supporto al monitoraggio dell’aderenza terapeutica (41% specialisti e 30% MMG). Circa metà dei direttori delle aziende sanitarie considera l’ambito importante e sta già cercando di far propria questa innovazione. Circa un direttore su quattro si dichiara “incerto” rispetto a queste soluzioni. Per i medici le principali barriere alla diffusione delle terapie digitali sono la scarsa conoscenza della validità clinica delle soluzioni (70% degli specialisti e 59% dei MMG) e un mercato ancora immaturo (58% specialisti e 51% MMG), mentre il principale beneficio è la possibilità di monitorare il paziente con più continuità (66% specialisti e 50% MMG).
La certificazione delle app per la salute
A proposito delle app per la salute, Sgarbossa riferisce che dai dati raccolti finora il loro livello di adozione da parte dei cittadini italiani è ancora limitato. Anche per le applicazioni non strettamente legate a una patologia e che possono essere usate in un’ottica di prevenzione (come quelle per alimentazione, stile di vita, sonno ecc). “Questo perché il mercato offre tantissime soluzioni, tanto che risulta difficile comprendere quella più corretta a cui affidarsi. Per questo spingiamo sulla certificazione, in modo che pazienti e medici usino questo criterio per scegliere in modo più appropriato” precisa Sgarbossa.
“C’è poi il problema dai dati raccolti – continua – perché solo un quarto dei cittadini li utilizza per migliorare il proprio stile di vita o prendere decisioni sulla propria salute, mentre il resto no. E solo il 5% lo invia ai propri medici, anche se questi sono interessati a riceverli come emerge dal questionario. Questi dati spesso vengono raccolti ma cittadini e medici non sanno se son affidabili e non li sfruttano. La vera sfida per il futuro sarà la successiva integrazione di questi dati all’interno dei sistemi informatici utilizzati dal medico, dalle strutture sanitarie e dalle Regioni, necessaria per abilitare una medicina preventiva e personalizzata”.
Dai chatbot alla telemedicina
Altri punti critici riguardano l’affidabilità delle informazioni online in ambito salute, perché come ricorda Sgarbossa, i medici stessi hanno mostrato una certa diffidenza sulle recensioni online, perché se non verificate con indicatori reali di efficacia della cura possono essere controproducenti per medico e paziente. Ancora l’omnicanalità per servizi al cittadino, intendendo un’integrazione tra servizi online e fisici che sfruttano anche altri canali, come la farmacia o i totem presso i supermercati o presso la stessa struttura sanitaria, ad esempio per evitare la coda allo sportello, a seconda delle esigenze della singola persona. I chatbot, per cui serve più consapevolezza e conoscenza, perché oggi cittadini e medici non ne conoscono il funzionamento e non ne comprendono realmente il valore aggiunto.
“Eppure potrebbero avere un ruolo nella parte che riguarda la prevenzione, perché possono affiancare il medico su attività che fatica a gestire con continuità, come la raccolta dati su stile di vita, alimentazione, allenamenti ecc.” commenta Sgarbossa. Infine la telemedicina, che ha subito un’accelerata in seguito all’emergenza Covid-19 per cui ora finalmente si è passati dalle sporadiche sperimentazioni al riconoscimento economico delle prestazioni svolte da remoto, con la speranza che possano diventare realtà e una pratica comune e diffusa. Ma che deve essere accompagnata da nuovi modelli organizzativi.
“Abbiamo visto in questo anno di ricerca una maggior consapevolezza dei vari attori, cittadini, medici e direzioni strategiche, rispetto all’importanza di alcune tecnologie digitali” precisa Sgarbossa. “In particolare sui servizi al cittadino e telemedicina, c’è stato un aumento di rilevanza riconosciuta dalle direzioni strategiche, che hanno capito come avrebbero potuto dare una mano durante l’emergenza. Sia per abilitare alcuni servizi al cittadino, come prenotazione online e ritiro referti, sia per abilitare le cure a distanza. Sempre nell’ambito della telemedicina sono aumentate anche le sperimentazioni rispetto allo scorso anno. Questo è il dato più confortante”.
Resta poi il fatto che benché l’area della telemedicina sia più avanzata rispetto ad altre, bisogna ancora lavorare sull’integrazione nel fascicolo sanitario elettronico per fare un esempio, tanto da portare la direttrice dell’Osservatorio a sottolineare come “sono stati fatti passi avanti, ma in nessun ambito possiamo considerarci arrivati”.
La valorizzazione dei dati sanitari
C’è poi il già ricordato, tema dello sfruttamento dei dati. “Perché la rivoluzione connected care è sia sviluppare servizi digitali da offrire al cittadino, sia sfruttare tutti i dati che questi servizi consentono di ottenere per poi essere analizzati con strumenti di analytics, predictive analytics, machine learning ecc, affinché si vada verso la medicina personalizzata” conclude Sgarbossa.
L’Osservatorio ha indagato il livello di maturità delle aziende sanitarie nella gestione e valorizzazione dei dati sui pazienti. Su quelli amministrativi le aziende dimostrano maggiore maturità: il 62% li analizza con strumenti di descriptive analytics, l’8% con logiche di advanced analytics, ma il 14% li raccoglie e non li analizza. Mentre i dati gestionali e organizzativi sono analizzati in modalità descrittiva dal 43% delle aziende, con strumenti avanzati dal 5%, d’altronde il 24% non li analizza anche se disponibili. I dati provenienti da App, wearable e sensori sono raccolti solo dal 22% delle aziende e analizzati da appena l’11%, quelli provenienti da web e social media sono raccolti dal 22% e analizzati dal 6%.
“La costruzione di un ecosistema di sanità connessa basato sulle soluzioni digitali in grado di generare dati, raccoglierli, integrarli e valorizzarli rappresenta la sfida principale del nostro sistema sanitario per i prossimi anni” ha aggiunto Paolo Locatelli, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità durante il Convegno. “Oggi è un ambito ancora da sviluppare, con pochi investimenti, competenze carenti e sistemi poco integrati e interoperabili. Per raggiungere questo obiettivo dovranno collaborare tutti gli attori del sistema salute, dalle istituzioni alle aziende ospedaliere, dai cittadini alle università e ai centri di ricerca”.