La faccenda sembra complicata, ma in realtà è molto semplice. La questione è sempre stata puramente economica: e tutti restano in attesa, guardinghi, di scoprire come finirà. E la Cina non starà certo a guardare
Se vi steste domandando a che punto siamo con la querelle che vede Huawei squalificata dal mercato USA: beh, non è cambiato granché rispetto a quanto vi abbiamo raccontato un paio di giorni fa. Voyeurismo giornalistico a parte, non ci sono state novità particolari in quella che, più che una vicenda che riguarda una singola azienda, è un tentativo da parte degli USA di portare una disputa politica e macroeconomica dalla propria parte. Huawei è la più in vista delle aziende cinesi, perfetta per dare un esempio e lanciare un segnale: per ora la questione resta in sospeso, dicevamo, anche se dell’altra parte del mondo ci sono le prime reazioni. E sono solo apparentemente di basso profilo.
Non parlate con Huawei
Si sta diffondendo una sorta di psicosi nel mondo della tecnologia. Per capirci, la procedura di isolamento in cui è incappata Huawei è piuttosto complicata: il Segretario del Commercio, che come figura è assimilabile (ma non sovrapponibile) a quella di un nostro ministro, ha iscritto l’azienda di Shenzhen in una lista di marchi con cui le imprese USA non dovrebbero fare affari. Perché l’ordine diventi esecutivo devono passare alcune settimane: in primo luogo perché vanno scritti e pubblicati i criteri di attuazione di questo bando (cosa si può e cosa non si può fare); in secondo luogo visto che si parla di dispositivi che fanno parte di una infrastruttura complessa, come quella delle reti mobile, bisogna dare tempo agli interessati di organizzarsi.
Infatti, come da previsione, è stato varato un periodo di tregua della durata di 90 giorni in cui provvedere a tutto questo. È una buona notizia per tutti: tutti coloro i quali sono coinvolti in questa vertenza hanno la possibilità di riflettere su quanto sta accadendo, e non è escluso che le negoziazioni possano proseguire fino a trovare un accordo. In attesa di capire cosa accadrà, però, le aziende di Silicon Valley si stanno tutte smarcando da Huawei: tra le altre Intel, Microsoft, Qualcomm, Broadcom e ovviamente la già citata Google hanno detto ai propri dipendenti di fermare ogni ordine e fornitura fino a nuove istruzioni.
La faccenda poi si sta facendo paradossale: ARM, ovvero la desing-company che vende i progetti alla base dei processori che si trovano nel cuore di tutti gli smartphone (nata nel Regno Unito e controllata dalla giapponese Softbank), ha deciso di sospendere anch’essa ogni tipo di rapporto con Huawei. Siccome l’azienda ha degli uffici negli Stati Uniti, e alcune parti dei suoi chip potrebbero essere state progettate lì, ha scelto un approccio conservativo: di questo passo però andremo verso la paralisi, proprio alla vigilia del debutto in grande stile del 5G sul mercato. Perché sia un successo è necessario garantire le forniture già ordinate, l’interoperabilità, senza contare i brevetti che Huawei detiene sulla tecnologia e che sono indispensabili a tutti.
Storia di uno smartphone mai nato
Il primo, e finora unico, effetto tangibile di questa situazione si è visto ieri a Londra: lì dove è stato organizzato il lancio di Honor 20, i giornalisti accorsi hanno scoperto che sfortunatamente il modello Pro non ha ricevuto da parte di Google le necessarie certificazioni per essere venduto con a bordo Play Store prima che scattasse il ban. Quindi presentati i nuovi smartphone, visti e toccati, siamo certi che il modello lite e Honor 20 arriveranno subito nei negozi e nelle nostre tasche: per il Pro, quello che monta 4 fotocamere e i sensori più sofisticati, invece siamo in attesa di novità (e nel frattempo è sparito dal sito ufficiale). Poco male, tutto sommato: Honor 20 pare già molto stuzzicante, con il sensore di impronte integrato nel tasto di accensione e una batteria da 3.750mAh, il tutto a 499 euro. Per il fratello maggiore si vedrà.
Per quanto attiene i telefoni già venduti, quelli già in commercio e in giacenza nei negozi, sono invece arrivate tutte le rassicurazioni del caso: verrà garantita assistenza e supporto, aggiornamenti di sicurezza, tutto quanto ci si aspetta insomma da un prodotto comprato e già pagato. Qualche dubbio in più riguarda il rilascio delle prossime versioni di Android: il Mate 20 Pro è sparito dalla lista dei dispositivi su cui era possibile testare in anteprima Android Q, ma non dovrebbe essere un problema particolare. Quanto c’è oggi in vendita è stato progettato e rilasciato con la versione attuale di Android (9.0 aka Pie), e potrà continuare tranquillamente a funzionare per molto tempo: almeno fino al termine di vita utile.
Per contrastare la campagna stampa scatenatasi, Huawei ha anche fatto appello ai suoi clienti più appassionati: sui social ha iniziato a circolare un cuore rosso con la scritta “io sto con Huawei”, con l’evidente obiettivo di far comprendere alle forze in campo (Google su tutti) quale sia l’affetto e la mole di utenti interessati da questa faccenda. Tutto questo poi non esclude che Huawei non si stia attrezzando per far valere le proprie ragioni anche nelle sedi più appropriate: al WTO, in un tribunale degli Stati Uniti o dovunque possa avere senso.
La Cina non sta a guardare
Al momento manca una risposta ufficiale da parte del Governo di Pechino a questa vicenda. Ma, come hanno notato alcuni giornalisti, la Cina ha fatto passare un messaggio molto sottile con le azioni del suo presidente Xi Jinping. Che nei giorni scorsi è passato a fare visita a un’azienda sconosciuta ai più, ma che è cruciale per il presente e il futuro dell’elettronica: JLMag Rare-Earth Co. Azienda che, come dice il nome, si occupa di “terre rare”: dei minerali che servono a far funzionare i semiconduttori nel cuore degli apparecchi come gli smartphone, forse vi sarà capitato di sentir nominare qualche volta il neodimio o il gadolinio, che sono appunto piuttosto rari sul nostro pianeta e che per una fortuita coincidenza vedono proprio in Cina alcuni dei giacimenti più consistenti.
La Cina insomma fa capire al resto del mondo che ha degli assi nella manica non da poco da giocare. C’è di mezzo la sopravvivenza stessa di un business multimiliardario, e in questo a Pechino tengono il coltello dalla parte del manico. Dall’altra parte c’è ovviamente la supremazia USA lato software: Google gestisce un monopolio di fatto nel campo di sistemi operativi e marketplace (va detto, non per sua scelta: è la concorrenza che non è stata all’altezza), e senza i suoi servizi (Gmail, Gmaps, Gdrive ecc) gli smartphone di chiunque risultano meno interessanti per il pubblico. Senza Android, senza il Play Store, Huawei ha una bella gatta da pelare: se ha pronto un piano B, come sembra far intendere, c’è da augurarsi che sia a uno stadio di maturazione tale da poter arrivare sul mercato entro 90 giorni. Prima che il panico crei danni che potranno essere sanati solo a medio-lungo termine.
C’è un precedente, forse sottovalutato. Nel 2016, a cavallo della fine dell’anno, il marchio Honor lanciò un terminale per l’epoca decisamente rivoluzionario: si chiamava Magic, aveva un design molto particolare e una dotazione tecnica assolutamente all’avanguardia. Parliamo di 4GB di RAM e 64GB di storage, schermo AMOLED ultra-HD, per l’epoca una rarità: ma soprattutto parliamo di una serie di funzioni legate all’intelligenza artificiale del tutto inedite allora. Tutto grazie a una serie di servizi cloud, profondamente integrati nel software del telefono, com quest’ultimo che di fatto operava con qualcosa di diverso dall’Android a cui siamo abituati. Erano le prove generali per l’autarchia software: più semplice in madrepatria, dove il pubblico è abituato a far meno di Google.
Se Huawei riuscisse a catalizzare il suo successo planetario di secondo marchio per vendite, forse potrebbe davvero costruire un’alternativa al duopolio iOS-Android. Le condizioni per farlo sono una piena interoperabilità con Android, come nel caso dell’Honor Magic, e un’azione di convincimento dei più importanti sviluppatori mondiali per avere le loro app nello store Huawei: parliamo di app come Whatsapp, Instagram, Facebook, che però sono made in USA e dunque potrebbero essere difficili da avere stante il bando. Magari però potrebbe arrivare altro, molto altro, e anche quelle app tramite un fornitore terzo con cui stringere un accordo: vedremo, è presto per trarre conclusioni. La partita, nonostante il catastrofismo di alcuni media, è tutt’altro che chiusa.