6×9 è l’ultimo lavoro giornalistico e immersivo del Guardian. Con la realtà virtuale veniamo portati dentro le prigioni di confinamento degli Stati Uniti d’America per vivere un’esperienza incredibilmente toccante.
“Ora ascoltami. Voglio che tu sappia di che cosa stiamo parlando, ok? Non è come la tv, ma meglio. Questa è vita. E’ un pezzo di vita altrui. Pura, senza censure, direttamente dalla corteccia cerebrale. Voglio dire, sei lì. Fai. Vedi. Senti.” – Strange Days (1995)
Una realtà sempre più virtuale
20 anni fa queste erano le parole pronunciate nel film sci-fi Strange Days, dove la trama ruotava attorno al commercio illegale di esperienze umane. Bastava indossare un caschetto per registrare il contorno di esperienze sensoriali ed emotive della propria vita.
Chiunque avesse indossato l’apparecchio avrebbe potuto caricare il file dell’esperienza e riviverla letteralmente in prima persona.
Dal film torniamo però al presente. Non esistono ancora dispositivi capaci di registrare tutto ciò che sentiamo e viviamo convertendolo in file, ma la strada suggerita dai progetti in circolazione è quella. Possiamo registrare video a 360° di concerti e guardarli come se fossimo in prima fila (un esempio è il recente festival musicale Coachella) oppure materializzare (o meglio, digitalizzare) idee e riflessioni in mondi sintetici 3D in cui immergere gli spettatori usando dei visori VR come interfaccia. Concerti, giochi, arte.
Ma anche giornalismo, come nell’ultimo progetto realizzato dal The Guardian, tra le testate più coraggiose e innovative in circolazione (campo di battaglia per le rivelazioni di Snowden e di investimento per Jeff Bezos).
L’isolamento e il confino solitario negli USA
Circa 100mila persone negli Stati Uniti d’America sono attualmente detenute in condizioni di confinamento solitario. Passano 23 ore al giorno in celle strettissime. Senza alcun contatto umano. Senza scambiare parole o vedere alcun volto eccetto sporche mura rovinate dal tempo. Interminabile. Si tratta di una pratica nata già nel 1800 e successivamente abolita, per il chiaro devastamento psicologico in grado di causare nel detenuto.
Fino agli anni 80, fino ad oggi, dove siamo capaci di barattare le nostre paure con soluzioni cieche ai limiti dell’anestesia empatica.
Un podcast e un’app per capire
Il giornalista Gary Younge ne ha tratto un podcast, dove descrive il problema che non fa che peggiorare la condizione dei detenuti, soli con sé stessi, tagliati via dal mondo, annullati dalla società invece di essere reintegrati. Younge ha arricchito la sua ricerca proprio usando la VR, realizzando un’app immersiva. Si chiama 6×9 ed è un’esperienza di confinamento solitario virtuale.
Nella pratica una cella di prigione digitale, realizzata progettandone i dettagli come mura, luci e suoni (compresi i lamenti dei compagni vicini) con il motore grafico Unity. Per entrarci la fedina penale sporca non è un requisito indispensabile, basta indossare un Google Cardboard e avviare l’applicazione su smartphone. Ma non si tratta di un gioco. Quello che si vivrà non è un’invenzione di un designer 3D, ma la trasposizione visiva dell’esperienza di 6 uomini ed una donna che hanno vissuto sulla loro pelle le angosce, l’isolamento e l’attesa interminabile nelle prigioni americane.
Le voci che sentirete sono le loro, vere, registrate.
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Giornalismo immersivo (quello vero)
6×9 è uno degli esempi di come sta maturando il cosiddetto giornalismo immersivo, già affrontato anche dal New York Times. Raccontare una storia oggi può arricchirsi di nuovi medium. Oltre le parole e i video registrati di nascosto in zona di guerra, è possibile riportare agli spettatori “esperienze dal fronte”.
Fare giornalismo è sempre stato un po’ come rubare dietro le quinte scorci di realtà perché tutti potessero saperne qualcosa in più.
Informare ha richiesto spesso di oltrepassare confini, mura, frontiere per invadere le zone proibite con la curiosità irriverente e le domande scomode dei reporter. Con i nuovi mezzi a disposizione, oggi il giornalista non è solo “colui che oltrepassa i confini” ma anche chi vi porta i lettori stessi, direttamente sulla scena, nella scena. Possiamo diventare loro compagni di viaggio, complici, anche se a posteriori (finchè non verrà introdotto lo streaming immersivo) per confrontarci con tutta la gamma di dettagli che formano un altro vissuto. La VR potrebbe aiutarci a bucare ancora una volta le mura erette dalla società. Anche quelle delle prigioni.
Valentino Megale