Valter Tucci, ricercatore all’IIT di Genova e specializzato in epigenetica, commenta lo studio pubblicato dall’Accademia delle Scienze di Shangai e parla del futuro dell’epigenetica
La clonazione è un processo biologico che genera organismi geneticamente identici. La tecnologia permette di effettuare la clonazione in due modi principali: la suddivisione dell’embrione nelle primissime fasi di sviluppo, come avviene in natura per i gemelli monozigoti, e il trasferimento di nuclei somatici. Fino al 1997 la tecnologia non era in grado di produrre cloni di mammiferi, traguardo che fu raggiunto con la nascita della pecora Dolly.
Un passo notevole nella storia della clonazione è stato compiuto dai ricercatori dell’Accademia delle Scienze di Shangai, che hanno sviluppato un protocollo che utilizza la proteina KDM4D, che agisce su un inibitore della cromatina (la tricostatina) ed evita problemi di riprogrammazione genetica, limite principale che aveva causato il fallimento di numerosi tentativi analoghi effettuati sui primati. I risultati di questo studio sono stati pubblicati sulla rivista Cell.
Il passo avanti dell’Accademia delle Scienze di Shangai
“Dal punto di vista scientifico, questo è un grosso traguardo per molti aspetti: aver clonato un primate non umano avanza notevolmente la nostra conoscenza del processo. Ciò che risulta davvero notevole è il modo in cui è stato raggiunto questo traguardo”, spiega Valter Tucci, ricercatore all’IIT di Genova e specializzato in epigenetica. In questo studio, infatti, si è modificata l’epigenetica per raggiungere l’obiettivo: i ricercatori hanno trasportato il nucleo di una cellula all’interno di un oocita, la cellula germinale femminile e ne hanno modificato importanti marcatori epigenetici. “Questo studio ha tentato la clonazione partendo sia da cellule adulte che da fibroblasti fetali. I ricercatori hanno , quindi, potuto osservare che il successo nella clonazione è maggiore partendo da fibroblasti”. Il team ha ottimizzato il protocollo agendo su alcuni principi di base dell’epigenetica, come la demetilazione e la deacetilazione dell’istone. “I risultati ottenuti coi fibroblasti fetali aprono anche nuove opportunità per la ricerca in genetica: infatti con le attuali tecniche di gene editing abbiamo la possibilità di modificare sequenze specifiche di alcuni geni, attività che risulta molto più semplice se effettuata in vitro. Questo permette anche l’effettuazione di appositi pre-screening”, aggiunge Tucci.
Queste premesse aprono nuovi scenari per la ricerca biomedica: grazie all’effettuazione di test in vitro più efficienti e veloci, potrebbe essere ridotta la ricerca sugli animali. “Il processo di ricerca biomedica per l’approvazione di un farmaco prevede diversi step: si passa da specie più semplice ad altri più complessi, come appunto i primati. Su questi ultimi non è facile agire sulla genetica, i traguardi nella clonazione permetteranno invece di abbattere la variabilità genetica e di avere quindi soggetti sperimentali geneticamente identici. Si tratta di un avanzamento importante per testare nuovi farmaci e nuove terapie. In questo caso potremmo avere infatti un controllo ottimale della parte genetica”, aggiunge Tucci.
Opportunità e rischi a confronto
Lo studio presenta comunque delle criticità, perché la tecnica non è ancora efficiente. “I ricercatori hanno utilizzato più di 70 embrioni e solo due hanno avuto successo. Si tratta però di un innegabile avanzamento, che andrà reso più efficiente”, continua il ricercatore. Per rendere efficace la nuova tecnica sarà necessario intervenire su alcuni meccanismi epigenetici di base, al fine di avere una resa pari al 100%.
La vicinanza genetica dei primati agli umani (le scimmie hanno circa tra il 93%-99% di DNA identico a quello umano) ha posto molti interrogativi dal punto di vista etico, ma va sottolineato che, per quanto riguarda questo esperimento, gli scienziati non hanno violato alcun principio etico. “Gli studiosi hanno precisato che non hanno alcune intenzione di fare esperimenti sulla clonazione umana. Pertanto, non vedo rischi al momento e sicuramente non da questo studio; siamo, invece, di fronte ad uno strumento che ci permetterà di migliorare la nostra conoscenza su molte patologie come l’Alzheimer e il Parkinson,che in questo modo potranno essere studiate in modo molto più controllato”, conclude Tucci.