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Gli investimenti per la ricerca tecnologica sono indispensabili. Perché la nuova connettività mobile è la base di una nuova economia
C’è una nuova economia che in questo 2020 sta iniziando il suo percorso, nonostante la straordinaria situazione globale che stiamo vivendo: è quella del mobile di quinta generazione, o come lo chiamano tutti semplicemente 5G, frutto di non meno di un decennio di ricerca accademica e applicata e che finalmente è arrivato al livello di standardizzazione e di maturità indispensabile a portarlo dai progetti sulla carta nella vita dei consumatori. È stato un percorso lungo, necessariamente, perché le novità che il 5G introduce sono notevoli: a partire dal nuovo hardware, le antenne per intenderci, ma risalendo tutta la catena fino al core della rete, e con ricadute significative nella vita di tutti i giorni di chi col 5G ha già iniziato a lavorare e ovviamente anche per quanto riguarda il semplice utilizzo degli smartphone di nuova generazione.
Un terreno comune
Lo sviluppo del 5G, dicevamo, è stato un percorso lungo: ha richiesto ingenti risorse da investire, perché la trasformazione di questo settore sopraggiunta negli ultimi 10 anni è davvero notevole. A raccontarcelo è Renato Lombardi, a capo di un centro globale di ricerca sulle alte frequenze che Huawei ha realizzato alle porte di Milano perché, ci spiega, qui l’azienda cinese ha trovato una piccola isola felice di altissima competenza su queste tematiche. Da sempre negli atenei del capoluogo lombardo (ma non solo) ci sono importanti scuole che formano esperti in questo settore: e si è anche instaurato una sorta di scambio vantaggioso con l’industria, che qui può scovare talenti e che in un certo senso può contribuire alla loro formazione anche grazie a programmi di partenariato.
Renato Lombardi, Huawei
Il programma di Huawei prevede la creazione di veri e propri Joint Lab, con un budget cospicuo che prevede un impegno minimo di 5 anni e che garantisce una gestione condivisa tra università e Huawei stessa grazie a un comitato congiunto che decide come questo budget debba essere investito. In Italia ci sono già 15 iniziative di questo tipo: lo scorso anno era stato avviato un Joint Lab sulla microelettronica a Pavia, ma altre esperienze importanti riguardano altre università come quella di Siena dove si lavora sull’elettomagnetismo o appunto il Politecnico di Milano dove il Prof. Antonio Capone (responsabile scientifico dell’Osservatorio 5G & Beyond del PoliMi) forma tra l’altro quegli studenti che poi potrebbero avere l’opportunità di proseguire il proprio percorso accademico con un dottorato e magari immaginare un futuro nella ricerca applicata. Magari anche nella struttura Huawei di Segrate, che proprio tra i PhD degli atenei italiani trova oltre il 75% del personale da cui è costituito il suo laboratorio.
Un punto da sottolineare è che stiamo parlando di ricerca che richiede un investimento significativo: le apparecchiature necessarie per lavorare con segnali ad alta frequenza, come quelli superiori ai 300GHz che vedono appunto collaborare Huawei con PoliFab (una delle strutture del Politecnico), possono costare milioni e questo è un costo da sommare (ovviamente) agli investimenti nel personale che è quello davvero in grado di fare la differenza nel lungo termine. A volte si tratta anche di investimenti che non ripagano nell’immediato e che dunque impongono una visione sul lungo periodo: dopo aver collaborato a definire le tecnologie 5G, oggi il Joint Lab di Milano sta studiando materiali e strumenti che arriveranno a maturazione forse tra 10 anni, quando nel 2030 ci sarà il debutto del 6G, o addirittura più avanti.
Perché il 5G può fare la differenza
Tornando al presente, c’è da raccontare ovviamente la differenza tra il 4G e il più moderno 5G. Differenze tecniche notevoli, che prevedono per esempio la possibilità di regolare in modo molto fine come le antenne dialogano con gli smartphone degli utenti grazie al cosiddetto “beamforming”: semplificando al massimo il concetto potremmo dire che le antenne 5G sono più intelligenti, capiscono dove si trovano gli smartphone e sono in grado di creare un segnale mirato che migliora anche la qualità della connessione. Tutto ciò è frutto di una tecnologia sviluppata anche a Milano, che prevede la costruzione di antenne formate da molti più elementi radianti che in passato: una sorta di matrice di mini-antenne, che lavorando in simbiosi possono garantire più velocità ma soprattutto maggiore efficienza (tra le altre cose, il 5G consuma meno del 4G e dunque le emissioni sono inferiori).
Altro aspetto importante da sottolineare è che una rete 5G è una sorta di completamento dell’evoluzione iniziata col 4G: il cosiddetto “core” della rete è ormai di fatto un datacenter, esattamente come quelli che offrono i servizi di un internet service provider, in cui le diverse funzionalità che gli operatori offrono ai clienti (privati o aziende) sono eseguite da macchine virtuali specializzate in compiti precisi, mentre la vera sfida è riuscire oggi a portare questa ricchezza di servizi e performance fino al terminale finale (ovvero fino alla RAN, la Radio Access Network, dove la tecnologia è allo stato dell’arte). Di nuovo, su questo terreno si è specializzata Huawei e vi lavora assieme a molti degli atenei italiani: una parte dell’infrastruttura di rete è costituita da “ponti radio”, ovvero connessioni via etere che mettono in comunicazione punto-punto diversi elementi e che sfruttano algoritmi e tecnologia sviluppati tra l’altro dai team di Renato Lombardi e del professor Capone.
C’è poi tutta la questione dell’Internet of Things e degli altri servizi che sono la vera promessa del 5G: le auto a guida autonoma, le fabbriche 4.0 iperconnesse, i servizi a bassa latenza per la telemedicina, tutti esempi di applicazioni che ricadono sotto l’ombrello del 5G ma che sono molto diverse l’una dall’altra. Per ciascuna di esse è richiesta una connettività specializzata: un sensore per il monitoraggio da remoto dovrà consumare pochissimo così da non doverlo alimentare o richiedere una manutenzione costante per il cambio delle batterie e dovrà trasferire pochi bit di informazione per volta. Viceversa, per controllare da remoto un’apparecchiatura medica è indispensabile bassa latenza per garantire che i suoi movimenti siano istantanei, senza contare che non si può correre il rischio che la banda necessaria a queste operazioni sia impegnata per altre funzioni a più bassa priorità.
Una nuova economia
Di esempi se ne potrebbero fare moltissimi: basti pensare alla connessione dei tifosi allo stadio per seguire una versione “aumentata” della partita con replay e moviola in tempo reale, per consentire di ordinare cibo e bevande o il merchandise della squadra del cuore e vederseli recapitati comodamente al proprio posto, con migliaia e migliaia di smartphone tutti concentrati in un luogo ristretto e con una grandissima richiesta in termini di banda e di dati. Lì il 5G, magari nella sua declinazione millimetrica (il cosiddetto mmWave: quello perfetto per le attività all’aria aperta), potrebbe essere la soluzione giusta per garantire a tutti di non sperimentare rallentamenti nell’esperienza multimediale.
Poi c’è il futuro dell’auto senza pilota, quella connessa e intelligente, ci sono le già citate applicazioni industriali che non possono essere trascurate perché richiedono tecnologie specifiche per il cosiddetto “slicing” dello spettro che prevedono l’assegnazione esclusiva (permanente o solo temporanea) ad applicazioni a cui va garantito il funzionamento seguendo una logica di SLA (Service Level Agreement) più che di “best effort”: in altre parole il 5G permette non solo di fare di più ma di farlo meglio, a patto di investire in una infrastruttura di rete adeguata. E qui si gioca anche un pezzo del dibattito che in questi mesi sta infiammando la conversazione sul 5G.
“Il Nordamerica – spiega il professor Capone – ha investito soprattutto in servizi cosiddetti over-the-top, mentre altri hanno continuato a investire in ricerca e sviluppo sulle reti e i segnali”: in altre parole, qualcuno ha scommesso che la differenza l’avrebbero fatta unicamente i servizi, mentre la sfida tecnologica comprendeva (e comprende ancora) pure come assicurarsi che questi servizi possano arrivare letteralmente nelle mani degli utenti. Non si può costruire la nuova economia del 5G senza l’una o l’altra componente: sarà inevitabile dunque che alla fine si giunga a un compromesso, perché quello del mobile è un ecosistema molto complesso e interconnesso in cui tantissimi stakeholder hanno contribuito a sviluppare ciascuno un elemento fondamentale al suo funzionamento. Soprattutto, questa è una macchina che continua a muoversi: le scelte fatte 10 anni fa, gli investimenti in ricerca con ormai un paio di lustri sulle spalle, hanno determinato come oggi il 5G è fatto e che cosa è in grado di fare. Lo stesso vale per la ricerca, accademica e industriale, che si svolge oggi: sempre più complessa e più costosa da svolgere, ma con delle ricadute enormi su settori solo apparentemente distanti dal mobile.
Prof. Antonio Capone, Politecnico di Milano
La chiosa perfetta a questo ragionamento la offre sempre il professor Capone: “Pensate a quanto è successo dal lancio dello Sputnik allo sbarco dell’uomo sulla Luna” dice. Gli investimenti compiuti dagli USA per rincorrere i russi nella corsa allo spazio hanno dato vita a innovazioni incredibili nel campo dell’elettronica e in molti altri settori e lo stesso sta accadendo oggi: chi investe in ricerca vede sempre un ritorno importante, vede sempre i frutti del proprio investimento e la scelta dell’Asia di puntare anni fa sulle telecomunicazioni sta dando oggi i suoi frutti. A noi sta decidere su quale treno salire: investire sulla formazione dei nostri tecnici potrebbe essere la scelta più lungimirante perché, assicura il professor Capone, “la formazione in Italia resiste ancora come unico ascensore sociale per i giovani”.