Linguaggi specialistici e divulgazione: la sociolinguista Vera Gheno parla di comunicazione nel campo della salute in vista del contest e hackathon PerchéSì, organizzato da Sanofi Pasteur
Il ruolo dei linguaggi specialistici di qualsiasi settore è quello di descrivere la teoria e la realtà di un determinato ambito nel modo più preciso e meno fraintendibile possibile. Tecnici, linguisti, medici, fisici, economisti, ma anche fabbri o parrucchieri hanno bisogno di un lessico specifico per trasmettere saperi e informazioni. Più è alto il livello di specializzazione, più il linguaggio sarà difficile da comprendere per chi fosse privo di quella specifica conoscenza. Dunque, è abbastanza chiaro che la necessità di precisione e icasticità dei saperi “alti” si scontra con il bisogno di chiarezza e comprensibilità. Ed è proprio qui che interviene la questione della divulgazione, che in Italia è purtroppo spesso considerata il “ruotino di scorta” di qualsiasi genere di conoscenza.
Salute e non solo, la divulgazione non svilisce il sapere
Quando si parla di divulgazione, molte persone pensano che questa implichi una banalizzazione del sapere, un suo necessario abbassamento non solo di registro, ma anche di qualità. Per questo motivo, anche tra gli specialisti esistono molti casi di persone che non vogliono in alcun modo prestarsi alla divulgazione, perché la ritengono uno svilimento del loro sapere. Ma questa non è l’unica motivazione per non impegnarsi a semplificare il proprio sapere in modo da renderlo divulgabile. La resistenza al processo, anzi, talvolta il vero e proprio disprezzo per esso, dipende anche da come è strutturato il sapere linguistico in Italia.
Succede, infatti, che a scuola si studi soprattutto la norma alta, letteraria. Quella che serve per conoscere la nostra lingua storica, quella basata sul famoso fiorentino parlato dalle classi colte del Trecento, come definito dal Bembo nelle Prose della volgar lingua nel Cinquecento. Questo sapere ci permette di leggere i classici, ma rimane spesso un’astrazione da usare all’interno del laboratorio scolastico: è la lingua dell’egli, del si è recato, dell’affinché: corretta, ma lontana dall’esperienza linguistica quotidiana. Succede così che molte persone finiscano le scuole con una specie di bipolarismo linguistico, conoscendo la lingua della letteratura e quella “della strada”. Nel mezzo, tra questi due poli, si annida un disagio linguistico diffuso, ma poco considerato, fatto di difficoltà a cambiare registro, a muoversi tra situazioni che richiedono competenze linguistiche diverse.
In questo scenario, accade che il proprio linguaggio specialistico diventi fonte di un maggior senso di sicurezza, una sorta di esoscheletro da impiegare per “darsi un tono” e non rimanere senza parole. Il problema, tuttavia, è che la conoscenza specialistica rischia di diventare una gabbia, dato che per molte persone diventa difficile uscirne per mantenere un grado accettabile di comprensibilità. Di conseguenza, la comunicazione diventa performativa (“Guarda quanto sono competente”) piuttosto che generativa (“Cerco di comunicarti qualcosa di utile, faccio uno sforzo per farmi capire”) e si perde lo scopo stesso della comunicazione. E mentre l’esistenza degli ignoranti (in senso etimologico, che ignorano) è nota, il disagio comunicativo dei colti è molto meno considerato, e lo si è percepito chiaramente nella comunicazione specialistica rispetto alla pandemia: in diversi casi, la voglia di “farsi belli” di un sapere quasi magico ha prevalso sull’attenzione rispetto al pubblico.
All’inizio della mia ventennale collaborazione, oggi conclusa, con l’Accademia della Crusca, Tullio De Mauro mi disse una cosa fondamentale: quando si comunica in pubblico, per un pubblico, è importante cercare di rivolgersi per quanto possibile all’interlocutore più debole, meno dotato di strumenti comunicativi, non a quello ideale. Solo in questo modo si evita di appiattirsi sulla performance comunicativa e – eventualmente – di fare l’effetto Azzeccagarbugli, usando, magari, l’inglesorum invece dello storico latinorum. Dunque, è essenziale fare attenzione a non far diventare la nostra comunicazione un assolo (in attesa degli applausi di un ipotetico pubblico) invece del dialogo che dovrebbe essere.
Salute, quando la divulgazione fa la differenza
In un momento come quello attuale, in cui la comunicazione riguardante la pandemia può letteralmente fare la differenza tra la vita e la morte, è più importante che mai investire non solo sulla comunicazione endoriferita, cioè interna a un ambiente specialistico, verso i propri “pari”, ma anche su quella esoriferita, verso l’esterno, verso il largo pubblico, che ha bisogno non solo di informazioni chiare, oneste e comprensibili, ma anche di essere a conoscenza di come il sapere specialistico avanzi, cioè per tentativi ed errori, e che disaccordi, confutazioni e perfino litigi sono perfettamente normali.
Un aiuto per agire in questa direzione arriva dalle tre coordinate che si possono considerare nel pensare un certo tipo di comunicazione: le intenzioni (cosa si vuole comunicare, che effetto si vuole provocare in chi legge o ascolta), il contesto (che mezzo o che canale si vuole o si deve usare) e gli interlocutori: più che al detto parla come mangi, dovremmo pensare a parlare come mangiano coloro ai quali ci rivolgiamo. Questo per creare ponti, invece che scavare fossati.
Vera Gheno è una sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall’ungherese, ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca. Attualmente lavora con la casa editrice Zanichelli e insegna come docente all’Università di Firenze. Da 2016 è stata autrice di diverse monografie sul tema del linguaggio tra cui Guida pratica all’italiano scritto, Potere alle parole e Femminili singolari. Conduce, con Carlo Cianetti, il programma di Radio1Rai Linguacce.
Vera Gheno fa parte della giuria della terza edizione del contest e hackathon PerchéSì, realizzato da Sanofi Pasteur insieme a Scuola Holden e alla S.It.I. (Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica): sarà premiata la migliore campagna sul rispetto dei calendari vaccinali. A sfidarsi, ben 40 team multidisciplinari composti da 200 futuri comunicatori, manager e professionisti della salute. Ventidue le scuole di igiene coinvolte
(Foto in alto: cottonbro da Pexels)