Meno visite, controlli o interventi chirurgici che non fossero collegati al Covid-19 per il 52% degli italiani. È quanto emerge dalla ricerca realizzata da Fondazione Italia e Salute, che indaga il prezzo reale del Covid -19 sulla sanità nazionale
Al tempo della pandemia, alcuni comportamenti dannosi e il minor accesso a prestazioni di cura o di prevenzione potrebbero trasformarsi nell’incremento di altre patologie. È l’allarme lanciato dal report “Gli italiani e il Covid-19”, di Fondazione Italia in Salute e Sociometrica.
Sono più penalizzate le donne (50%) rispetto agli uomini (46,1%). Mentre la fascia di età con i maggiori disagi è quella tra i 46 e i 55 anni.
Possiamo attribuire parte di rinvii e annullamenti alla paura di frequentare i luoghi della sanità. Lo stesso report registra che il 63.9% degli intervistati evita ospedali, cliniche e ambulatori per timore di contrarre il virus.
Le responsabilità del sistema sanitario
Ma il Covid ha avuto anche un impatto devastante sulla programmazione delle aziende sanitarie. Per comprenderne le cause ne abbiamo parlato con Marta Marsilio e Anna Prenestini, professoresse associate all’Università degli Studi di Milano.
“Dal punto di vista della gestione e della programmazione delle attività delle aziende sanitarie mancavano tutti gli elementi per valutare il presumibile afflusso dei pazienti Covid negli ospedali e il fabbisogno assistenziale richiesto”. Un discorso che vale per la prima ondata, ma in parte anche oggi. Dati, studi scientifici ed esperienza aggiungono di giorno in giorno nuovi elementi. La sanità sta cercando di modulare la sua organizzazione in risposta all’emergenza.
Poi però ha avuto un certo peso anche la carenza di risorse. Intendiamo quelle umane, i dispositivi di protezione individuale, i tamponi e il materiale sanitario. “È stata critica la carenza di professionisti sanitari. E, nello specifico, di alcune tipologie di professionalità come anestesisti, rianimatori, medici dell’urgenza, ecc.”.
A queste si aggiungono alcune condizioni strutturali che hanno influito sul modo in cui le aziende hanno affrontato l’emergenza. “Negli ultimi decenni non sono stati effettuati gli investimenti necessari per migliorare le infrastrutture sanitarie e gli ospedali. Non è stata potenziata la risposta domiciliare, delle strutture territoriali e della prevenzione. Inoltre è mancata una spinta rilevante all’acquisizione di tecnologie e all’implementazione di soluzioni di telemedicina”.
Ma a quali servizi gli italiani hanno dovuto rinunciare?
Le prestazioni sanitarie con maggiori ritardi o cancellazioni in tempo di Covid sono state le visite specialistiche. Gli annullamenti e i rinvii hanno riguardato 35 milioni di italiani.
E il dato è confermato anche dalle analisi svolte presso il Centro di Ricerche ed Alta Formazione in Health Administration, dove Marsilio e Prenestini conducono le loro ricerche. Dall’analisi su un campione di 30 aziende sanitarie pubbliche, è emerso che durante la prima ondata le visite specialistiche sono crollate di circa il 70%.
“Durante la prima ondata è stato necessario spostare la quasi totalità degli specialisti e degli infermieri verso la gestione dell’emergenza e dei ricoveri di pazienti Covid-19, interrompendo le visite specialistiche. Inoltre, era necessario ridurre al minimo le occasioni di contatto tra pazienti e con i medici, per evitare la diffusione dell’infezione. Le sale d’attesa piene di pazienti e visite a flusso continuo – in un periodo di scarsità di dispositivi di protezione individuale – non avrebbero consentito il distanziamento e il mantenimento delle condizioni di sicurezza”, hanno spiegato Marsilio e Prenestini. Di fatto le aziende hanno assicurato solo le prestazioni urgenti e non differibili.
Altrettanto carenti sono state le visite presso il medico di base. Chiudono il podio le analisi cliniche, per le quali circa il 26.2% degli intervistati si sono visti annullare o rinviare i servizi.
Lo scarso accesso a analisi cliniche e esami radiologici ha penalizzato soprattutto i pazienti dai 56 anni in su. I giovani adulti, fascia 26-35 anni, denunciano difficoltà per i servizi oncologici (14.9% degli intervistati).
Gli interventi chirurgici più rimandati hanno riguardato la fascia di età 18-25 anni, così come quelli di primo soccorso (16.7 % degli intervistati tra i 18 e i 25 anni).
“Le sale operatorie e i posti letto di chirurgia sono stati riconvertiti in aree per pazienti Covid . Questo fenomeno, insieme alla necessità di dedicare anestesisti e infermieri di sala alla gestione dell’emergenza, ha portato all’interruzione degli interventi chirurgici non urgenti e non salvavita”.
Nel complesso 2,3 milioni di italiani hanno spostato o cancellato un ricovero ospedaliero. Mentre sono 5 milioni gli italiani che non hanno potuto usufruire di interventi di day hospital per rinvii o annullamenti della prestazione.
“Nella fase di ripresa delle attività chirurgiche, alcune delle soluzioni più interessanti arrivano da partnership tra aziende sanitarie pubbliche e cliniche private”, commentano Marsilio e Prenestini. Si riferiscono alle esperienze di alcuni chirurghi dipendenti pubblici che hanno usufruito delle strutture e del personale privati per operare i propri pazienti. “Queste soluzioni possono contribuire a garantire il mantenimento di livelli di produzione chirurgica adeguata, dati i vincoli operativi e logistici delle strutture pubbliche”.
Un’Italia che corre a diverse velocità
Intanto c’è anche una disuguaglianza territoriale. Ammalarsi al nord o al sud non è la stessa cosa. Infatti, hanno provato maggiori disagi i residenti in meridione (56,1%), mentre nel nord-est ha avuto problemi il 43,4 % della popolazione.
Tuttavia osservando più nel dettaglio le difficoltà riscontrate, è l’Italia nord-occidentale a registrare il maggior numero di prestazioni cancellate.
La sanità che guarda al futuro
La prima ondata di Covid ci ha dato una lezione. Marta Marsilio e Anna Prenestini hanno raccolto i suoi insegnamenti nel volume che hanno scritto a quattro mani, “Il management delle aziende sanitarie in tempo di crisi: sfide e soluzioni gestionali e operative all’emergenza Covid-19” (McGrawHill, 2020). E riassumono così i cardini su cui fondare la programmazione della ripartenza.
“Da una parte occorre investire sui servizi di prevenzione, territoriali e a domicilio. E ci sono soluzioni già individuate nella pandemia, come le USCA e gli infermieri di comunità”.
Poi è necessario potenziare tele-visite e tele-consulti. “Devono diventare una modalità ordinaria di erogazione delle prestazioni ambulatoriali quando non è fondamentale la presenza del paziente”, hanno commentato Marsilio e Prenestini. “Sono anche utili per il recupero delle liste di attesa e per l’organizzazione dei normali flussi di attività. Ancora oggi, infatti, le strutture sanitarie devono implementare soluzioni logistiche e organizzative che garantiscano il distanziamento fisico. Tale necessità, di fatto, può ridurre il numero di visite ambulatoriali erogabili durante la giornata”.
Certo questa transizione non poteva essere così immediata. Innanzitutto occorre rendere più efficienti ed efficaci i servizi erogati. “È uno sforzo di riprogettazione di tutti i processi e dei percorsi dei pazienti”.
E poi è necessario lo sviluppo e il potenziamento di strumenti digitali e nuove tecnologie. Di fatto il sistema sanitario deve essere capace di monitorare parametri ed erogare prestazioni diagnostiche a distanza. E deve essere un intervento accurato, capace di definire in maniera tempestiva la più idonea strategia di intervento sanitario.
Infine, occorre prepararsi meglio alla gestione delle crisi, con lo sviluppo di capacità di crisis management. Serve maggiore flessibilità nell’utilizzo delle risorse: dalla rapida riconversione di infrastrutture, reparti, posti letto, alla ristrutturazione dei processi e dei percorsi dei pazienti. “E per raggiungere l’obiettivo non bisogna sottovalutare l’attenta mappatura delle competenze di medici e infermieri, per definirne percorsi di mantenimento e valorizzazione. Così come non bisogna trascurare la costruzione di network tra enti pubblici e privati”.
Riavere accesso alle cure non è banale, come hanno confermato Marsilio e Prenestini. “Le aziende sanitarie non devono solo ritornare al loro stato precedente, ma devono traslare su un nuovo paradigma organizzativo”.