L’insicurezza e un’informazione troppo superficiale rischiano di generare mostri e complottismi: ne parla Massimo Polidoro in vista del contest e hackathon PerchéSì, organizzato da Sanofi Pasteur, sulla comunicazione nel campo della salute
Periodicamente assistiamo a raduni di persone che protestano contro qualcosa che ritengono malvagio ma che, alla prova dei fatti, si rivela spesso frainteso se non del tutto inesistente. Lo scorso anno, a Berlino, si sono radunate circa 18.000 persone che negavano l’esistenza del Covid19 o contestavano le decisioni prese per contenerlo. Poi, con molte meno persone, la cosa si è ripetuta a Roma, Parigi, Londra e altre città europee. In tempi più recenti le proteste non riguardano più il Covid19 ma il vaccino o il Green pass.
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Spesso, a questi raduni si vedono complottisti di ogni sorta, no vax, sciachimisti, seguaci di QAnon, nemici del 5G ed estremisti politici, sia di destra (coloro che in genere credono che il vaccino provochi ogni tipo di guaio e sia uno strumento dei poteri forti per controllare le coscienze e trasformarci in automi), forse più numerosi, che di sinistra (coloro che non negano che probabilmente il virus esista e i vaccini siano utili, ma credono che i dati siano gonfiati e lo stato di eccezione costante in cui viviamo sia uno strumento di assoggettamento politico).
Una comunicazione più empatica
A manifestare il proprio dissenso di persona, ma soprattutto sul web, ci sono anche tante persone confuse o spaventate, che forse non hanno ben chiari i termini del problema e che, probabilmente, hanno bisogno di una comunicazione meno emotiva, più basata sui fatti ma anche più empatica. Chi manifesta ansie e timori, spesso legittimi, non va criticato o aggredito, ma compreso e aiutato.
Tuttavia, che cosa succede nel caso di coloro che arrivano a credere alle bufale più estreme, finiscono per rifiutare o negare la verità e si dimostrano impermeabili a qualunque argomentazione? Ed è giusto chiamare queste persone “negazionisti”?
«La caratteristica della menzogna è quella di presentarsi come verità… Quando un racconto fittizio è ben congegnato, non contiene in sé i mezzi per essere demolito in quanto tale» scrive lo storico francese Pierre Vidal-Naquet. Egli si riferisce al revisionismo sulla Shoah, ma il suo discorso in effetti vale per qualunque forma di “negazione”.
Chi nega lo sbarco sulla Luna, l’evoluzione, il riscaldamento globale, l’Olocausto e oggi il Covid19 o l’utilità dei vaccini, talvolta vive in un mondo chiuso, dove la conclusione arriva prima dei fatti, e si illude a livelli diversi di essere un “pensatore indipendente”, un paladino della verità, senza mai accorgersi di avere abbracciato una fede che può resistere solo se non si incontrano mai i fatti o, se si incontrano, chiudendo gli occhi di fronte a essi.
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Non trattiamoli solo come paranoici o pazzi
È evidente che ci troviamo di fronte a persone che hanno deciso di considerare le evidenze scientifiche un optional. Persone per le quali è più importante quello che si crede rispetto a quello che i fatti dimostrano. Ma sarebbe un errore pensare che si tratti solo di paranoici o pazzi.
La differenza tra chi crede e chi non crede nelle teorie cospirative non va interpretata nei termini di una contrapposizione tra malati e sani, paranoici e razionali, ma anzi come una competizione tra differenti versioni e fonti, finalizzata a comprendere la realtà sociale.
Il che, naturalmente, non equivale a dire che ogni interpretazione di un evento abbia la stessa dignità, altrimenti andrebbe a farsi benedire ogni tentativo di capire veramente la realtà. Significa, piuttosto, che le differenti versioni possono essere analizzate in maniera razionale e confrontate per capire quali sono le spiegazioni fondate e quali no.
E perché ciò avvenga sono necessarie motivazioni, interessi, competenze cognitive e desiderio di approfondimento, tutte risorse che utilmente impieghiamo nell’affrontare i problemi più importanti della nostra esistenza ma che, per ovvie ragioni di economia, non possiamo applicare in tantissimi altri ambiti pur di rilievo.
Il rapporto tra ansia e complottismo
Le teorie del complotto e i negazionismi, insomma, si possono inquadrare come uno dei modi che le persone hanno di spiegare la realtà di certi eventi, attribuendo significato a un mondo frammentato e caratterizzato dall’incertezza e riducendo in questo senso l’ansia.
Studi recenti sembrano confermare che uno stato di ansia può in effetti spingere le persone a pensare in un modo che si avvicina di più al complottismo. L’American Psychiatric Association ha presentato nel maggio 2018 i risultati di un sondaggio condotto negli Stati Uniti dal quale emerge che il 39% degli americani è più ansioso rispetto all’anno precedente, in particolar modo per ciò che riguarda la salute, le relazioni, la sicurezza, la politica e la situazione economica.
Sono queste crisi esistenziali, unite all’idea di non avere voce in capitolo, a favorire il pensiero complottista. In queste situazioni la teoria del complotto offre un conforto perché fornisce comodi capri espiatori e fa sembrare il mondo più semplice e controllabile.
Queste persone, insomma, riescono a credere che se non ci fossero i cattivi, allora andrebbe tutto bene. Invece chi non crede nelle teorie del complotto deve ammettere semplicemente che le cose brutte possono accadere anche per caso.
È come se entrassero in gioco meccanismi di protezione della propria autostima, che permettono di imputare la responsabilità della condizione di svantaggio propria o dei propri valori a specifici soggetti o al sistema in generale.
Rispettare sempre l’identità delle persone
Si tratta dunque di trovare il modo di contrastare le teorie del complotto senza però mettere in discussione l’identità di una persona. O, come dice Joanne Miller, docente di Scienze politiche alla University of Minnesota: «non attaccare le credenze individuali, ma piuttosto i motivi che portano le persone a credere alle teorie della cospirazione».
È un lavoro che certamente spetta alle istituzioni e a chi governa, che devono lavorare ancora molto per migliorare la fiducia dei cittadini, ma la comunicazione stessa dei media, in particolare della TV, dovrebbe essere più improntata alla condivisione di fatti accertati e alla spiegazione degli eventi, anziché lasciare più spesso e volentieri spazio a complottismi e a notizie false, con l’unico obiettivo di alimentare conflitti e litigi da talk show a favore di audience.
Occorre invece sforzarsi di favorire una cultura dell’informazione, o media literacy (alfabetizzazione mediatica), come si dice oggi, in modo che il pubblico possa acquisire gli strumenti necessari per riconoscere in mezzo al caos informativo il giornalismo di qualità e distinguerlo dalle bufale.
Naturalmente non è una rivoluzione indolore. Diventare lettori attenti significa diventare lettori critici ed esigenti, capaci di riconoscere la propaganda e mettere in discussione informazioni scadenti. C’è il rischio che chi campa sulla disattenzione e la superficialità dei cittadini possa ritrovarsi improvvisamente esposto e smascherato, proprio come il re nudo della fiaba di Andersen.
Su Startupitalia.eu l’intervento di Massimo Polidoro in vista del contest e hackathon PerchéSì, organizzato da Sanofi Pasteur, per parlare di comunicazione nel campo della salute: : sarà premiata la migliore campagna sul rispetto dei calendari vaccinali. A sfidarsi, ben 40 team multidisciplinari composti da 200 futuri comunicatori, manager e professionisti della salute. Ventidue le scuole di igiene coinvolte.
Massimo Polidoro è giornalista, divulgatore, scrittore e storyteller. È tra i principali esperti internazionali di fatti misteriosi e psicologia dell’insolito, che poi racconta sulla carta, in tv, sui social e da qualche tempo anche in teatro. Il suo ultimo libro dedicato ai complottismi è “Il mondo sottosopra” (Piemme).