La narrazione scientifica deve abbracciare realmente la poetica sana dello storytelling. Ne parla Paolo Iabichino in vista del contest e hackathon PerchéSì, organizzato da Sanofi Pasteur, dedicato alla comunicazione della salute
Questo tempo di pandemia ha stravolto la percezione delle tematiche sanitarie e di che cosa voglia dire prevenzione, vaccino, salute. Anche il racconto del personale medico è diametralmente cambiato a seconda della fase della pandemia in cui ci siamo trovati immersi. Approcciarsi a questi temi richiede ora uno sforzo ulteriore: declinare il loro racconto in modo differente.
La narrazione deve iniziare a essere percepita come responsabilità individuale e collettiva; riveste un’importanza che è assolutamente chiave per noi, per tutte le ragazze e i ragazzi che gravitano intorno a noi e che sono coinvolti in questo progetto. Ma il contesto con cui ci scontriamo, vede questa liturgia, questa sacralità che dovrebbe essere il perno di chi, come me, fa dello scrivere il suo mestiere, purtroppo dilapidata, sperperata.
In questi mesi abbiamo avuto la percezione di come sia la narrazione scientifica a pagare la colpa più grande di una comunicazione inefficace, frammentaria, al di là delle responsabilità imputabili alla politica e a un certo tipo di giornalismo intrappolato nelle maglie di uno storytelling tossico.
La narrazione scientifica non si è mai impegnata per abbracciare realmente la poetica sana dello storytelling, nonostante la semplificazione di queste materie richieda grande attenzione e profondità. Trovare un registro comprensibile e commestibile ai più deve essere necessariamente l’obiettivo di questo tipo di comunicazione, allontanandosi da quella deriva pornografica e voyeuristica che nelle emozioni ci sguazza.
Costruire un linguaggio onesto e veritiero
C’è da costruire, in questo momento più che mai, un linguaggio che si sforzi di essere il più possibile onesto e veritiero. In caso contrario, il rischio è che un sentimento molto nobile, come quello della paura, diventi l’ispirazione dello scrivere, travolgendo tutto il resto con questa leva emozionale.
A furia di insegnare la poetica del racconto e le arti dello storytelling, abbiamo finito per banalizzare una serie di significanti che hanno bisogno di meno narrazione e molto più agito. Abbiamo desemantizzato il lessico del nostro mestiere finendo per inficiare la fiducia di chi ci dovrebbe ascoltare. Alla fine siamo diventati poco rilevanti, proprio noi che dovremmo fare del racconto un agente trasformativo.
La sacralità del racconto nasce nel momento in cui le emozioni degli interlocutori, che siano lettori, ascoltatori o consumatori, incontrano l’autenticità della sorgente che deve allontanarsi da intenti seduttivi fini a se stessi e dalla manipolazione di un certo sentire che molto spesso, troppo spesso, diventa piaggeria, compiacimento e vanità.
Ogni volta che si scrive una storia si parte in qualche modo da una tensione, specie nel mestiere della creatività pubblicitaria che abbraccia il consumer insight e ora, sempre più spesso, abbraccia tensioni culturali. La narrazione dell’impegno da parte delle marche le costringe a un racconto che è fatto sì di parole dette ma anche di parole agite. Le azioni devono corrispondere alle parole. O per dirla con un’espressione inglese: walk the talk.
Chiunque oggi si trovi a raccontare delle storie nuove, soprattutto relative a temi così delicati, spinosi e spesso spaventosi, ha il dovere di farlo con rispetto, quel rispetto che è dovuto alle persone che portano dentro la propria vita queste parole.
Ribaltare la prospettiva di storytelling
Il destino della sorgente dovrebbe risuonare con quella del destinatario recuperando l’origine profonda e atavica dei racconti. Nascevano infatti per cementare delle comunità intorno a storie che arrivavano da lontano e che risultavano identitarie. È ancora una magia importante. Nessuno ne è esente, neanche la medicina e la scienza che non hanno mai compreso, fino in fondo, quanto fosse importante sintonizzarsi con questo tipo di sensibilità.
Sono questi i punti fermi su cui non si può transigere. In nome dell’empatia abbiamo visto manipolare i sentimenti per poterli usare a proprio uso e consumo ma è giunto il momento di ristabilire un perimetro di gioco in grado di accogliere il valore di una storia agita, una storia disegnata con parole che diventano azioni.
Se riusciamo a tenere la barra dritta su questo tipo di alchimia tra il detto e l’agito, che è la strada che molti brand in questo momento stanno percorrendo, allora abbiamo buone possibilità di ribaltare un po’ la prospettiva di storytelling troppo spesso inflazionati, troppo spesso abusati, costruiti nel rispetto di regole narrative ormai obsolete.
I racconti che funzionano meglio sono quelli che consentono il meccanismo empatico, vestendo l’emozione dell’altro, attraverso la sincerità e la semplicità di device quotidiani.
Impegnarsi in questo senso, anche nella narrazione scientifica, è fondamentale e significa rinunciare alla banalizzazione del sentire comune, rispettarlo e provare a costruire storie che arricchiscano, che nutrano, che risolvano una problematica.
Dobbiamo tirarci fuori da quella rischiosissima partita che mira a intorbidire le acque tra ciò che deve essere fatto, ciò che è giusto fare e ciò che può essere strumentalizzato.
Non sprechiamo la crisi provocata dalla pandemia
Siamo immersi in un contesto dove tutto è politica e tutto è diventato consumo ma lo storytelling vero non si gioca su questi registri, su queste poetiche. Si costruisce su racconti altri, più nobili, più dignitosi. La lente attraverso cui è necessario analizzare la realtà deve essere critica, avulsa dai meccanismi della seduzione ma anche dalla tentazione del silenzio.
In questo momento, l’impegno non è più delegabile. Su questi temi un appuntamento è stato mancato e, adesso, ben vengano impegni così importanti gestiti dal punto di vista personale, da quello collettivo e da parte di chi fa mercato in una logica di profitto finalmente sano e non speculativo.
Per riprendere le parole di Papa Bergoglio, non sprechiamola questa crisi provocata dalla pandemia. Facciamo in modo che questo fantasma della nuova normalità si allontani il più possibile perché, prima del Covid, di normale non c’era proprio nulla. Impegnarsi vuol dire questo, scrivere vuol dire questo: ribaltare la prospettiva. Agire, scrivendo. Per mettere in fila parole che diventano azione.
Paolo Iabichino è un pubblicitario tra i più noti in Italia, vincitore della settima edizione del Premio Emanuele Pirella “Comunicatore dell’anno”, ideato dal Dipartimento di Comunicazione ed Economia di Unimore. Ha inventato e declinato il concetto di “invertising”, diventato un libro nel 2010. Nel 2014 ha pubblicato “Existential marketing. I consumatori comprano, gli individui scelgono”, nel 2017 “Scripta volant. Un nuovo alfabeto per scrivere (e leggere) la pubblicità oggi”. Insegna in diverse università e tiene corsi e seminari sulle trasformazioni in atto nel mondo della comunicazione d’impresa.
Paolo Iabichino fa parte della giuria della terza edizione del contest e hackathon PerchéSì, realizzato da Sanofi Pasteur insieme a Scuola Holden e alla S.It.I. (Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica): sarà premiata la migliore campagna sul rispetto dei calendari vaccinali. A sfidarsi, ben 40 team multidisciplinari composti da 200 futuri comunicatori, manager e professionisti della salute. Ventidue le scuole di igiene coinvolte
**Foto in alto di cottonbro da Pexels