Con la medicina narrativa cambia il rapporto tra medico e paziente, anche grazie alle nuove possibilità offerte dalla tecnologia digitale. L’intervista all’antropologa Cristina Cenci, fondatrice della startup DNM-Digital Narrative Medicine
“I pazienti oggi vogliono partecipare alla costruzione del loro percorso di cura: se le conoscenze specifiche spettano ai medici, c’è una competenza esistenziale che appartiene invece al singolo. Considerare e valorizzare il desiderio di definire il proprio progetto di vita è il compito della medicina narrativa, che riguarda non solo i medici, ma anche gli infermieri, i fisioterapisti, gli psicologi o le altre figure coinvolte nel team curante multidisciplinare”. Cristina Cenci, antropologa e fondatrice del Center for Digital Health Humanities, è in prima linea: nel 2016 ha dato vita alla startup DNM-Digital Narrative Medicine, una piattaforma unica nel suo genere per l’integrazione delle competenze narrative nella pratica clinica.
Come definire la medicina narrativa?
“E’ un insieme di metodologie che consente di acquisire, comprendere ed integrare la narrazione del paziente, con l’obiettivo di personalizzare il percorso di cura. La malattia non va vista solo da un punto di vista medico clinico, ma bisogna anche considerare come viene vissuta dalla persona e come viene rappresentata dalla società”.
Quando si è aperta questa prospettiva?
“Di medicina narrativa si parla dagli anni 80, nel contesto della Harvard Medical School, con le riflessioni di psichiatri e antropologi, in particolare Arthur Kleinman (1988) e Byron Good (1994). Viene sistematizzata da Rita Charon (2006) alla Columbia University e da Trisha Greenhalgh (1998) e Brian Hurwitz (1998), con una serie di articoli importanti pubblicati sul British Medical Journal. In Italia la pietra miliare è stata messa nel 2015 dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha dato delle precise linee di indirizzo. Da allora è stato fatto tantissimo lavoro e il nostro Paese ha recuperato il gap, anzi, oggi siamo tra i più attivi. Il punto di riferimento è la Società Italiana di Medicina Narrativa (SIMeN), che promuove il dibattito e la ricerca scientifica su questo tema”.
Acquisire, comprendere ed integrare la storia del paziente: in concreto che cosa significa?
“Innanzitutto si fa raccontare al paziente la propria storia con un’intervista approfondita, che non si limita all’anamnesi. Per esempio, non si verifica solo se in famiglia ci sono stati casi di una certa patologia, ma si chiede anche come siano stati vissuti o quale impatto abbiano avuto sulla vita personale, informazioni utili per pensare a un’eventuale strategia di prevenzione. Inoltre, di fronte alla malattia bisogna capire qual è il progetto esistenziale del paziente, quali sono le sue aspettative, come vuole vivere il suo percorso di cura. Una volta compresi questi aspetti, li si integra con il dato clinico. A quel punto, a parità di efficacia clinica, tra opzioni terapeutiche diverse si sceglie quella che più si adatta alla storia personale”.
Che cosa è cambiato rispetto al passato?
“Prima il dottore era considerato l’unico depositario del sapere e del potere taumaturgico, al punto che nessuno, a volte nemmeno il farmacista, riusciva a decifrare la sua scrittura. Questo accresceva il suo prestigio e la sua autorevolezza agli occhi della società. Era una relazione di tipo sciamanico. Oggi quel rituale terapeutico è cambiato: il medico è diventato piuttosto un accompagnatore lungo il percorso di cura in una visione sistemica, che con la specializzazione scientifica si era un po’ persa”.
Il web ha influito su questo cambio di paradigma?
“Quando si parla di Internet le dinamiche sono simili, che si tratti di salute o di shopping: in entrambi i casi si viaggia su Google alla ricerca di giudizi e pareri degli utenti. Nel caso della malattia il confronto con le esperienze altrui entra a far parte del modo in cui la viviamo, per questo il percorso narrativo del paziente va attentamente presidiato e incanalato. Se non si costruisce una relazione di fiducia, si rischia che il paziente non si affidi più al medico specialista e l’alleanza terapeutica vada in crisi”.
Come ripensare allora la relazione medico-paziente?
“Bisogna porre attenzione all’ambiente digitale. E’ importante utilizzare piattaforme dedicate, non generaliste, non solo perché garantiscono maggiore sicurezza per quanto riguarda la privacy, ma perché offrono la possibilità di un vero ambulatorio virtuale. Lavorando sulla grafica, sui colori e sulle modalità di interazione in videochat si ricrea l’identità di un centro di cura, facendo in modo che il paziente possa sentirsi a proprio agio e affidare allo specialista la sua narrazione esistenziale”.
Che cosa comporta per un medico conoscere più a fondo la vita dei pazienti?
“Non è semplice per un chirurgo o per un altro specialista entrare nel mondo emotivo dei pazienti. Il distacco è importante per garantire l’efficacia dell’intervento. Per questo la narrazione personale non va lasciata libera, ma orientata e limitata. Gli elementi di vita personale vanno incanalati in un contesto clinico, senza esporre il medico a contenuti che potrebbero metterlo in difficoltà. La medicina narrativa non è da confondere con la qualità della relazione: non significa essere gentili, ma ascoltare il punto di vista dei pazienti”.
Grande nemico del medico, ma spesso anche del paziente, è il tempo, che spesso non è sufficiente per effettuare un colloquio approfondito.
“Proprio a questo proposito è nata la startup DNM-Digital Narrative Medicine. Una piattaforma online che, nel massimo rispetto della privacy, offre la possibilità di scrivere un diario digitale. Una forma di comunicazione asincrona, slegata dalla fretta con cui si affronta magari la visita medica. Grazie a specifici stimoli il paziente viene condotto attraverso una narrazione guidata. Le risposte possono essere date anche in maniera multimediale, attraverso audio o video: nei giovani abbiamo riscontrato una minore propensione alla scrittura. Il medico ha a sua volta la possibilità di leggere il diario quando vuole, riservandogli la giusta attenzione, per poi condividerlo con il team”.
Di quali progetti vi state occupando?
“Collaboriamo con IFO (Istituti Fisioterapici Ospitalieri, che gestiscono l’Istituto Nazionale Tumore Regina Elena di Roma, ndr) per quanto riguarda l’oncologia, mentre abbiamo un progetto dedicato all’epilessia con il Policlinico di Roma. Con l’Ars Toscana, insieme all’Ospedale Careggi di Firenze, ci siamo occupati di malattia di Alzheimer: in questo caso il ruolo del narratore è svolto dal caregiver. ”.