La direttrice del Dipartimento di Ingegneria Informatica, Automatica e Gestionale “Antonio Ruberti” dell’Università La Sapienza: “Stiamo davvero rischiando grosso: rischiamo di lasciare fuori le donne da settori del sapere che rivoluzioneranno il mondo”
Mai come in questa pandemia è stato evidente come la mostruosa mole di dati ormai a disposizione può essere cruciale per costruire le vie d’uscita: in fondo, proprio le previsioni elaborate sui dati e sui modelli numerici sono state, a cavallo tra 2019 e 2020, la prima misura messa in campo – dall’epidemiologia computazionale – per cercare di fare luce su quell’allarme al momento vivo solo in terra cinese e scorgere quale minaccia potesse rappresentare il virus, allora misterioso, per il mondo.
Oggi l’integrazione multidisciplinare dei dati sta dando alla pandemia la sferzata determinante. «Senza la disponibilità dei big data, la ricerca non avrebbe potuto costruire in tempi così brevi i vaccini anti-Covid», afferma Tiziana Catarci, Professoressa ordinaria di Sistemi di elaborazione delle informazioni e Direttrice del Dipartimento di Ingegneria Informatica, Automatica e Gestionale “Antonio Ruberti” dell’Università La Sapienza.
Quando StartupItalia la incontra, peraltro fresca del premio Artificial Intelligence-Data Science Tecnovisionarie 21, il discorso corre facile sulla crucialità delle competenze informatiche sì per risalire, oggi, la crisi, ma soprattutto per costruire quel futuro e quella nuova civiltà che in breve ci farà guardare alla nostra epoca come un tempo e un luogo assai lontano. «Ma fa male vedere come le ragazze continuino a tenersi lontano da questa disciplina. Io credo che molti e molte non comprendano bene cosa sia, l’informatica».
Professoressa Catarci, partiamo da lei, una donna a capo di un settore che in genere è condotto da un uomo. Si tratta di un traguardo straordinario se si guarda alla sua carriera, di un quadro mortificante, invece, se si allarga lo sguardo a tutto il settore, disabitato dalle donne. Come commenta?
Assolutamente. Io sono la direttrice di questo dipartimento, ma sono anche l’unica professoressa ordinaria della mia area disciplinare. Una delle pochissime in questo Paese.
Come se lo spiega lei?
Se ci sono poche donne che lavorano nell’informatica e sono autentiche mosche bianche quelle a livello apicale è perché c’è un problema, e grosso, a monte: ovvero, le ragazze non si iscrivono a Informatica e Ingegneria informatica. Sono appena il 15% del totale. Il problema, insomma, è la platea di ingresso. A parte le facoltà di Ingegneria, dove le ragazze si aggirano sul 27%, a Medicina troviamo numeri decisamente importanti, al punto che il gap di genere è rovesciato: alla Sapienza, le ragazze rappresentano il 70% degli iscritti. Insomma, non è vero che le facoltà scientifiche non sono approcciate dalle ragazze: è l’informatica che non lo è.
Però, negli anni Settanta le facoltà di informatica erano invece sì frequentate dalle ragazze in maniera significativa. Poi, arrivò una clamorosa frenata e un’inversione di rotta.
Per capire cosa è successo dobbiamo guardare agli Stati Uniti, che negli anni Settanta erano sicuramente il Paese più avanzato dal punto di vista dell’offerta e le cui facoltà di informatica contavano una buona partecipazione femminile. Ancora nel 1995 le americane laureate con titolo di primo livello in ICT, che comprende quelle che noi chiamiamo Ingegneria informatica e Informatica, erano il 28,5% del totale. Nel 2014, il 18,1%. Insomma, in 20 anni sono scese della bellezza di 10 punti percentuali.
Che spiegazione si può individuare oggi, guardando agli anni Ottanta, decennio in cui è cominciata la marcia indietro?
Se ne sono fatte diverse, ma ce n’è una che vede tutti concordi, ovvero la nascita e la grande diffusione, negli anni Ottanta, appunto, dei personal computer, i quali fecero volare anche la diffusione dei videogiochi. Personal computer e videogiochi divennero in breve il regalo perfetto per i maschi, l’evoluzione, per intenderci, del tradizionale trenino. E quando questi maschi, che si erano enormemente impratichiti nell’informatica – non certo sul piano del pensiero computazionale, ma su quello della relazione con il computer – affrontavano i test di ammissione all’università, superavano le ragazze, le quali, anche se venivano ammesse, nel tempo finivano un po’ per essere marginalizzate da queste enclave maschili sempre più estese e rafforzate dal percepito dell’informatica come, appunto, una disciplina da maschi. Il cinema e i media, recependo e diffondendo su vastissima scala lo stereotipo, hanno dato la mazzata finale.
Peraltro, la narrazione del nerd come individuo asociale e spesso chiuso nelle sue stanze a occuparsi di cose sostanzialmente inutili non ha certo favorito la causa.
Purtroppo, no. Le ragazze rifiutano in maniera categorica questo modello. Nei numerosi eventi di orientamento e incontro con i giovani, vengo a contatto con molte ragazze alle prese con la scelta del percorso di studi da intraprendere: ebbene, tante di loro raccontano di voler fare una professione che dia loro modo di contribuire a grandi sfide come la salvaguardia ambientale del pianeta o la cura dell’essere umano, così puntano a biologia o a medicina, non realizzando che l’informatica è ugualmente un potente motore della sostenibilità, come della salute umana: basta pensare al ruolo determinante dei big data, dei sensori, della robotica…E’ che pochi ragazzi e ragazze hanno davvero idea di cosa sia l’informatica e l’enorme portata delle sue applicazioni, quando l’informatica è ben condotta.
Lei invece, che si è laureata in Ingegneria Informatica alla Sapienza negli anni Ottanta, l’ha scelta e studiata in tempi in cui le donne lo facevano pochissimo. Cosa l’ha spinta?
Io avevo un’inclinazione naturale piuttosto spiccata verso la soluzione dei problemi, in particolare quelli matematici. E nessuno della mia famiglia ha pensato mai di metterla in dubbio.
Già, proprio la matematica è vissuta come una bestia nera. Secondo alcuni esperti, stereotipi duri a morire inducono a sopravvalutarne le difficoltà, specialmente da parte delle ragazze. Per non dire di stereotipi per cui le femmine non sono portate per la matematica.
Autentiche leggende! Il che produce grossi danni nel momento di scegliere gli studi. Va detto che le ragazze tendono a sottovalutare le loro performance in tutte materie scientifiche: alcuni studi internazionali hanno mostrato come le ragazze sono più inclini a sviluppare autolimitazioni nelle materie scientifiche. Tendono ad associare al genere femminile l’abilità nel linguaggio e al genere maschile quella nelle materie scientifiche e, in particolare, tecnologiche.
Lei però sostiene che a compiere il disastro che sta tuttora tenendo lontane dall’informatica le ragazze è stata la comunicazione, serie televisive in testa.
Beh, Lisbeth Salander, esperta di pirateria informatica della famosa serie tv è un esempio lampante: bizzarra, scostante, con look esasperati, sempre senza un fidanzato… Non invita certo le ragazze a seguire la sua strada. All’opposto, giornali e tv celebrano le donne che fanno carriera nell’informatica come professioniste assolutamente eccezionali, fuori dalla norma. Finché la figura della donna informatica non viene normalizzata, non ne usciamo.
Dunque, ricapitoliamo. Esplodono le opportunità di lavoro per chi si laurea in informatica, ma le ragazze abbandonano proprio questa facoltà, peraltro proprio mentre il Next Generation Eu sta irrorando l’area tecnologica di finanziamenti straordinari per creare lavoro. Nelle materie scientifiche le ragazze sono pure più brave dei coetanei maschi – lo confermano i risultati accademici -, ma loro non si sentono capaci. Come si esce da questa situazione così assurda e contraddittoria?
Con politiche pubbliche serie, sistemiche e di lungo periodo decise e portate avanti dai Governi e accompagnate dalla verifica degli impatti. Basta parole e basta iniziative sporadiche e non strutturali. Non serve a nulla, per esempio, introdurre la programmazione alle superiori: occorre, invece, che bambini e bambine siano messi in contatto con il pensiero computazionale – non basta il Coding! – già dalla scuola elementare e che siano coinvolti anche gli insegnanti e le famiglie. In Italia si fa poco, troppo poco, e quel che si fa non ha uno sguardo lungo né sistemico. Stiamo davvero rischiando grosso: rischiamo di lasciare fuori le donne da settori del sapere che rivoluzioneranno il mondo. E questo vuol dire non solo togliere alle donne possibilità occupazionali straordinarie, ma anche privare l’intelligenza artificiale, che forgerà il mondo, del contributo femminile. Deve essere chiaro a tutti che tra vent’anni vivremo in un mondo molto diverso da quello che conosciamo. E questo nuovo mondo lo stanno costruendo sostanzialmente i maschi, i maschi bianchi. Solo team attraversati dalle diversità potranno restituire quella ampiezza di vedute, di pensiero, di valori indispensabile a costruirlo: è povera la visione in cui non c’è diversità.