Internet ha cambiato il nostro modo di acquisire conoscenze, grazie alla condivisione e alla collaborazione tra utenti. Tuttavia, la medesima libertà ha anche favorito la diffusione della disinformazione. Come contrastare le fake news (così diffuse durante il Covid)? Aumentando la capacità dei cittadini di giudicarle, senza censurarle. Il report della Royal Society
Le fake news non sono un fenomeno nuovo. Però oggi vi sono elementi nuovi su cui è necessario soffermare la nostra attenzione. In primo luogo, le notizie false di oggi si spargono a grande velocità e sono pervasive. Il loro successo dipende anche dalla capacità delle organizzazione di raccogliere dati sugli utenti dei social media. I dati consentono infatti di indirizzare i messaggi proprio alle persone che sono allineate a un certo tipo di pensiero.
In secondo luogo, il successo delle fake news dipende dalla loro capacità di far leva sulla psicologia e l’emotività delle persone, generando risposte indotte e prevedibili.
Allora il grande nemico è rappresentato dalle piattaforme dei social network, complici della diffusione delle fake news? Non la pensa così la Royal Society, come dichiara nel report Online Information Environment. Dopo un’analisi approfondita del fenomeno e una serie di raccomandazioni per istituzioni, scienziati, giornalisti e lettori la Royal Society mette in guardia il Governo britannico additando le fake news come un danno per l’intera società. Servono provvedimenti, che però non si devono basare sulla rimozione delle fake news dalle piattaforme.
L’approccio britannico si inserisce in un contesto storico, come ha ben evidenziato l’analisi apparsa su Tigor (2021) a firma di Roberto Adriani. Secondo l’approccio americano l’attenzione non deve essere messa tanto sul contenuto dell’informazione quanto piuttosto sulla libertà di circolazione delle idee. In sostanza, non vale la pena intervenire per rimuovere contenuti falsi perché questo potrebbe limitare la libertà di circolazione delle idee. L’antidoto alla circolazione delle idee false è la stessa capacità del cittadino di giudicarle. L’Europa, invece, storicamente si è sempre più concentrata sulla qualità dell’informazione.
La necessità di un’analisi approfondita
Per comprendere la portata del fenomeno delle fake news, innanzitutto è importante misurare il suo impatto sul pubblico. Secondo l’analisi della Royal Society, solo il 5% degli intervistati non crede che i vaccini COVID-19 siano sicuri; solo il 5% nega che l’uomo sia responsabile dei cambiamenti climatici; il 15% ritiene che la tecnologia 5G sia dannosa per salute umana.
“Anche se le prove attuali suggeriscono che le fake news convincono solo una minoranza degli utenti di Internet, il danno causato crea notevole preoccupazione e può avere conseguenze nel mondo reale”, commenta il report.
Le giustificazioni a sfavore della rimozione delle fake news sono numerose. Rimuovere contenuti o commenti e marcare le notizie giudicate false non fa altro che aumentare la sfiducia nelle istituzioni. Infine, l’introduzione della censura potrebbe favorire la migrazione degli utenti verso nuove piattaforme, magari meno famose o visibili. La discussione online diventerà sempre più privata e più difficile da analizzare. Emergeranno nuovi social media concorrenti, con poca o nessuna esperienza nell’affrontare contenuti dannosi.
Gli stessi effetti li sortiscono le campagne di informazione troppo insistenti, perché creano un effetto di resistenza psicologica.
Come contrastare le fake news
Le misure suggerite non riguardano interventi da attuare dopo che un fenomeno di disinformazione è avvenuto. Occorre invece introdurre misure proattive, volte a creare una sorta di resilienza nel pubblico.
In primo luogo occorre difendere la pluralità dei media e il controllo indipendente dei fatti, anche per favorire la comprensione da parte del pubblico. Occorre comunicare l’incertezza della scienza e aggiornare il pubblico con gli sviluppi della ricerca.
E per raggiungere il consenso del pubblico la partita si gioca con le regole dell’economia dell’attenzione online.
Qualsiasi misura che controlla la diffusione delle informazioni, compresi gli algoritmi che stabiliscono la posizione delle notizie nei feed, devono essere ponderati accuratamente.
Si potrebbero usare tecnologie che aiutino gli utenti a verificare la validità e l’origine di messaggi o immagini e monitorare le piattaforme di social media più “marginali”.
Secondo una recente ricerca pubblicata su Science Advances, l’installazione di applicazioni che valutano l’affidabilità dei siti ha avuto un’efficacia limitata per quel 10 – 20% dei lettori che si affidano di disinformazione, non modificando il loro comportamento. Certo è che tale ricerca dovrebbe essere estesa a un pubblico più ampio tra coloro che si affidano a siti di disinformazione e anche per un tempo più prolungato per valutare l’efficacia dei messaggi dissuasori.
Anche inserire metodi come la demonetizzazione, la regolamentazione dell’uso di algoritmi di raccomandazione e le etichette di verifica dei fatti per ridurre i danni della disinformazione scientifica senza censurare il dibattito.
Tutto ciò probabilmente favorirebbe anche un ritorno della fiducia nei confronti di giornali e produttori mainstream, che forse si allontanerebbero dalla tentazione del clickbait.
La formazione è cruciale
Un punto su cui la Royal Society insiste è la formazione del singolo. Occorre diffondere una buona conoscenza del web, dei suoi meccanismi e dei suoi tranelli, affinché la società prenda decisioni sempre più informate. E questo tipo di educazione deve riguardare ogni fascia di età.
Una ricerca appena pubblicata sul Journal of Experimental Psychology: Applied ha dimostrato che la capacità di rilevare le notizie false è paragonabile tra giovani e anziani. Infatti, dipende dalle capacità individuali di ragionamento analitico. Anche se, all’aumentare dell’età, la ricerca ha rilevato una minor attenzione ai dettagli.
“È vero che un livello di istruzione più alto sicuramente aiuta a proteggersi, ma nessuno può dirsi completamente immune dal rischio”, commenta Roberto Adriani, Partner di Heritage House, già docente a contratto di Languages of the Media alla Statale di Milano. “Del resto il noto fenomeno del confirmation bias è così potente perché in definitiva le fake news ci dicono ciò che, più o meno inconsciamente, desideriamo sentirci dire, producendo sulla nostra mente un effetto consolatorio o persino gratificante”.
Per questo ben vengano think tank capaci di seguire il fenomeno e di svolgere una divulgazione e formazione continua. “In Italia è attivo l’Osservatorio Permanente Giovani Editori, che da tempo svolge una meritoria attività di media e web literacy”.
A livello professionale, bisognerà formare nuove figure capaci di seguire l’evoluzione del fenomeno della disinformazione per comprenderla e per mettere in atto le azioni più corrette. “Credo che le competenze più importanti saranno quelle che consentiranno di indagare i meccanismi profondi che a livello psicologico inducono un utente a credere ad una fake news.
E poi servono organizzazioni indipendenti che svolgano attività di fact checking e sono indispensabili finanziamenti per sostenere questo tipo di iniziative.
La ricerca del Duke Reporters’ Lab del 2020 riporta notizie incoraggianti circa i progetti di fact-checking: ce ne sarebbero circa 300 in 83 paesi differenti.
La ricerca scientifica
La Royal Society pone obiettivi molto alti per contrastare le fake news e soprattutto descrive un panorama in continua evoluzione. Per questo un altro cardine nella lotta alle fake news può essere la ricerca scientifica.
“La ricerca universitaria è fondamentale per leggere i cambiamenti in atto”, ha confermato Adriani citando, ad esempio, il contributo del docente de La Statale di Milano, Sergio Splendore. Splendore, infatti, ha svolto la parte italiana di una ricerca che ha coinvolto 17 paesi europei sul cambiamento della fruizione dei media in seguito a crisi grosse quanto la pandemia da Covid – 19. Grazie a quella ricerca sappiamo che c’è stato un incremento del consumo di news e soprattutto di quelle immediatamente fruibili, come quelle condivise da social media e TV.
Se è vero però che vi è una collaborazione tra università internazionali, “servirebbe maggiore collaborazione tra università e imprese della comunicazione, andando oltre quel velo di diffidenza reciproca che a volte si percepisce tra questi due mondi”, commenta Adriani. “La disinformazione oggi è troppo pervasiva per agire in autonomia. Ovviamente per fare questo servono investimenti adeguati, sia pubblici che privati, anche alla luce di un contesto geopolitico che si va sempre più polarizzando e nel quale la disinformazione gioca purtroppo un ruolo chiave”.
Sempre la ricerca sembra dirci che i giovani tendano a cadere vittima delle fake news in misura minore rispetto agli adulti, racconta Adriani. “ La disinformazione si presenta però sotto molte forme, per questo occorre investire in modo continuativo in media literacy per le future generazioni e non abbassare la guardia”.