Due anni fa visitai la sede di Argotec, la startup torinese che ha conquistato la NASA con il suo micro-satellite. Ma dietro c’è molto di più. Ecco perché è un modello vincente.
Ogni storia è potenzialmente infinita. Almeno fino a quando qualcuno non interviene per mettere dei recinti o per segnare dei confini. In fondo basta solo scavare per scoprire altri collegamenti, altri filoni, altre vite. Quello che sto per fare è esattamente questo. Aprire uno di questi recinti per provare a raccontarvi quello c’è subito dopo, nascosto alla vista.
Avete sentito di Argomoon? La NASA ha scelto un microsatellite italiano da mandare nello spazio profondo. Un CubeSat, l’unico europeo dei 12 selezionati, che sarà interamente progettato e realizzato da Argotec, un’azienda ingegneristica torinese specializzata nella ricerca e sviluppo di sistemi aerospaziali. Ne hanno parlato tutti: dal Corriere a La Stampa, passando per Repubblica e Startupitalia.
Ma oltre alla news c’è di più. C’è un modello, vincente, che va raccontato
Un pezzo di universo in città
Due anni fa venni invitato da Gnammo (una startup food, un’altra bella storia) ad una cena speciale. Ero emozionato e incuriosito: avrei assaggiato il cibo degli astronauti. E non quello liofilizzato o composto da chissà quali pillole. Cibo vero, proveniente dai presidi slow food e cucinato da uno chef. Quella cena era organizzata nei locali di un’azienda che non conoscevo. Stava in una zona di Torino lontana dal centro, vicino al fiume meno nobile, la Dora, e immersa in quartieri caratterizzati da una forte immigrazione come Aurora e Borgo Dora.
Quell’azienda si chiamava Argotec
Un vero pezzo di universo stellato tra grigi capannoni, grandi magazzini e palazzi squadrati. «Ci siamo ispirati agli argonauti, i valorosi eroi della mitologia greca, che a bordo della loro nave realizzavano imprese leggendarie» mi disse David Avino, l’amministratore delegato. Giasone, il vello d’oro, Medusa. Già dal nome capii che quello non era un luogo banale.
Per un attimo è stato un po’ come tornare bambino
È bastato poco per dimenticarsi di quello che c’era fuori. Tutto quello che David diceva era capace di affascinarmi: «Una delle nostre principali attività è quella di addestrare gli astronauti e il personale di terra e siamo in contatto con la Stazione Spaziale Internazionale. Vedi quello schermo? È la giornata tipica di un astronauta, ora per ora, attività dopo attività. Quello, per esempio, è il programma di Samantha Cristoforetti». AstroSamantha. Sì, proprio lei. Di colpo non era più lontanissima ma accanto a me. Potevo immaginare per davvero cosa stava facendo e cosa avrebbe fatto di lì a poco. In pochi passaggi sarebbe stata addirittura a portata di voce e, quella sera, avrei mangiato il suo cibo.
A Torino, non a Houston. A un chilometro da casa mia. Fantastico
I progetti e una macchina del caffè speciale
L’avrete vista immagino. È quella della pubblicità con Tullio Solenghi ed Enrico Brignano. Io la toccai per davvero. Era la macchina del caffè più complicata che avessi mai potuto immaginare. Ma non fu quello a sorprendermi. A spiegarmi il funzionamento furono due ragazzi. Camice bianco e un viso da adolescenti. Sguardo deciso, gesti precisi. Erano loro i responsabili del progetto. Mi sentii vecchio e felice. Io che, all’epoca, avevo appena 29 anni. Loro 22 e 26.
Visitai tutte le stanze e gli altri laboratori. Strinsi la mano ad altri ingegneri, quasi tutti più giovani di me: «L’età media è 28-29 anni» mi disse David. Una squadra vera, ognuno con un ruolo specifico. Alcuni si occupavano della realizzazione di sistemi termici: «Non ci occupiamo solo di spazio. Molte di queste tecnologie andranno a semplificare la nostra vita quotidiana». Nuovi materiali, fluidi, reazioni, risparmio di energia. Molte cose, lo confesso, non le capii ma era un piacere ascoltare quelle voci così competenti e tutte entusiaste di mostrare il frutto del loro lavoro.
Niente cartellino: contano solo i risultati
La filosofia di David è molto chiara: «Qui contano solo i risultati. Ci sono progetti da portare avanti e da concludere. Ognuno deve organizzarsi come meglio crede». Nessuno timbra il cartellino o ha degli orari giornalieri da rispettare. Può arrivare alle undici del mattino e andare via alle undici di sera. Si chiama responsabilità e non sarebbe male se, in Italia, fosse più diffusa.
Andai via con la consapevolezza di essere stato in un luogo unico. Dopo quella serata è stato un piacere seguire le imprese di Argotec. Leggere le interviste sui giornali; sentire, in televisione e sul web, raccontare la storia di quella che non è solo una startup.
Condividere. Sempre
Così, quando sabato scorso David mi ha chiamato per annunciarmi il successo di Argomoon, per la prima volta non sono rimasto sorpreso. Soprattutto nel sentirgli usare il plurale.
Un “noi” che racchiudeva tutto il senso di quella visita fatta due anni prima
Ripenso al senso di “finito” e riprendo la notizia pubblicata dai grandi giornali. C’è una sua dichiarazione che compare dappertutto: «I nostri ingegneri sono al lavoro per sviluppare un nuovo concetto di nano-satellite utilizzando materiali innovativi e per integrare, in un volume grande quanto una scatola di scarpe, alcuni dei nostri sistemi e delle tecnologie italiane. I CubeSat sono i droni del futuro e saremo i primi a testarli così lontano dalla Terra, nelle condizioni estreme dell’orbita translunare».
Quegli ingegneri io li vedo, anche in questo momento. Con il loro camice bianco, lo sguardo concentrato, due occhi pieni di quella voglia matta di farcela. E un’incrollabile fiducia data da chi crede in loro. Scommetto che hanno tutti una storia importante alle spalle. Storie che un giorno, scavando, qualcuno racconterà andando oltre questo recinto che ho appena finito di costruire.
Alessandro Frau