Troppo facile etichettare questi individui come aggressivi, violenti, frustrati o invidiosi. In realtà sono il frutto del risentimento e di un fenomeno psicologico curioso. Con Rudy proviamo a decifrare l’atteggiamento di chi contribuisce a rendere il mondo online una giungla
Siamo in un mondo complicato fatto di troppe sfaccettature e troppe sfumature, in cui la distinzione tra bene e male è sempre più difficile, in cui capire dove sono i buoni spesso risulta impossibile. Questo accade perché la complessità del tutto per molti versi ha superato la nostra capacità di comprenderla. Alcuni la chiamano “singolarità”, ovvero quel momento nella storia in cui la tecnologia diventa così complessa da essere del tutto incomprensibile agli uomini e d’altronde Clark diceva che ogni tecnologia sufficientemente evoluta è indistinguibile dalla magia; tuttavia, sono le persone ad essere le entità più incomprensibili di questo nostro mondo digital. Da un certo punto di vista siamo catapultati tutti quanti in una realtà che non ha uno storico, senza una “base educativa” dalla quale partire, un universo che genera delle aberrazioni che fatichiamo a comprendere e di conseguenza ad arginare.
Fate un piccolo sforzo immaginifico con me. X, chiameremo così il soggetto del nostro esperimento, sta scorrendo un social: potrebbe essere Instagram, Facebook, TikTok o Twitter. Anche Linkedin, ma il nostro soggetto X non è molto attento ai social professionali quindi, diciamo, si diletta con le piattaforme. Ha passato una giornataccia X, come più o meno tutte le sue giornate: fa un lavoro che odia, con un capo che non sopporta e che considera stupido e leccapiedi. A casa sta bene ma non benissimo perché la vita che ha avuto non è la vita che avrebbe voluto. Dentro gli si accumulano delle tensioni, delle torsioni dell’anima che lo rendono sempre un po’ nervoso. Mai abbastanza da essere cattivo con gli altri ma abbastanza per odiare un pochino molti di quelli che lo circondano.
In fondo non fanno niente. La gente non lavora più. Degli scemi fanno i soldi facendo tre video su Instagram, le ragazze sono senza pudore e i ragazzi debosciati. Non importa che X durante il suo excursus social pensi a queste cose perché lui le sente, le sente dentro, sempre. A un certo punto scorrendo vede una tizia: una “sciacquetta” che da un pulpito digitale che le è capitato addosso per chissà quale fortuna spara sentenza assurde su quelli che fanno proprio il suo lavoro. Sono poco professionali, non sono puntuali, sono spesso gretti o addirittura maleducati. X non ci vede più. Dopo tutte le ore che passa a farsi il mazzo arriva l’ultima scappata di casa che si permette di distruggere il suo lavoro e la sua categoria! Ferma il video, va sulla barra dei commenti e insulta profondamente la tizia, la sua famiglia i suoi figli e tutti i suoi avi, con una forza, una dedizione e una rabbia che non sentiva da tempo. Insulta e insulta ancora a ogni altra risposta che gli arriva. E più gli scrivono, più rispondono e più insulta augurando le cose peggiori del mondo.
Ora, quella che abbiamo appena letto è la tipica dinamica di un “leone da tastiera” dove per leone non s’identifica un genere ma una tipologia di individui presenti online. Quello che noi ci chiediamo in questi casi è perché. Perché uno si comporta in questo modo? Io trovo che la domanda non sia corretta. Non lo è perché le motivazioni sono evidenti, palesi, non dobbiamo chiedercelo. X è arrabbiato e frustrato, questo senza dubbio, in più ha dalla sua la totale immunità dovuta all’anonimato dei social. Comunque, X è arrabbiato, immune e sa scrivere. Punto. Per questo lo fa, lo fa perché può farlo. La domanda vera è, se X fosse stato di fronte alla persona che ha insultato, de visu, si sarebbe comportato nello stesso modo? Nella gran parte dei casi no. Questo accade per un fenomeno che va al di la della frustrazione e la vigliaccheria, prendendo il nome di “Online disinhibition effect”.
L’effetto di disinibizione online (scriverlo e dirlo in italiano è terribilmente difficile) è la mancanza di autocontrollo che alcuni individui hanno quando si comunica online rispetto alla comunicazione di persona. Alcune persone tendono a fare di più, si sentono più sicure e giustificate nel dire cose online che non direbbero nella vita reale perché oltre alla possibilità di rimanere anonimi come dicevamo, fattori come la comunicazione asincrona e il deficit di empatia che ne deriva amplificano le nostre reazioni.
Questa “patologia” non è altro che l’esasperazione di qualcosa che nella vita reale non appare perché non abbiamo schermi a filtrarci e si comunica con sincronicità: non è detto che il leone da tastiera sia un personaggio sgradevole nella vita reale e anzi, quando gli fai notare come si è comportato (come faceva la Lucarelli per radio chiamando al telefono gli hater che riusciva ad individuare) cade dalle nuvole con frasi del tipo “ah, ma io non pensavo fosse grave, eravamo su Facebook”. Ecco il punto, il succo, il distillato della nostra breve digressione nella psiche di X: quando scriviamo sui social alcuni di noi NON pensano di avere di fronte una persona. Non la vediamo, non la sentiamo quindi non la percepiamo e facciamo quello che non faremmo se l’avessimo di fronte. Ma non è vigliaccheria, o non solo almeno perché in effetti è Online disinhibition effect e c’è solo un modo per combatterlo ovvero l’educazione alla consapevolezza.
Spesso mi si chiede quale potrebbe essere la prossima rivoluzione in ambito social ed io rispondo che sarebbe la consapevolezza. Ci dobbiamo porre una domanda molto semplice, quando facciamo qualcosa online: se fossimo offline, di persona, direi la stessa cosa che sto dicendo e lo farei con gli stessi termini che sto utilizzando? Se la risposta è sì allora mi sto comportando in maniera sana. Se la risposta è no è meglio fermare le dita che, spesso, vanno molto più svelte del cervello.