Per affrontare le sfide poste da ambienti così estremi vengono in aiuto soluzioni biotecnologiche come l’idroponica a ciclo chiuso. E nello spazio riciclare le risorse diventa un requisito imprescindibile, come ci spiega la ricercatrice dell’ENEA Angiola Desiderio
Costruire “serre spaziali” sulla superficie lunare o marziana dove poter crescere ortaggi ci può sembrare uno scenario degno di un film di fantascienza. In realtà, la capacità di fornire ai membri di un equipaggio di astronauti prodotti freschi e nutrienti, sia a bordo della navicella sia all’interno di un’eventuale base su una superficie planetaria, costituisce un elemento fondamentale da cui dipenderanno le sorti delle missioni spaziali del futuro.
Da anni ENEA (l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) porta avanti diversi progetti, in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana e con altri enti di ricerca e università, incentrati sulla coltivazione di piante destinate all’alimentazione degli astronauti e sullo sviluppo di sistemi biorigenerativi di supporto alla vita in ambito spaziale (Bioregenerative Life Support Systems, o BLSS).
Chi pensa che lo space farming sia qualcosa di astratto si dovrà ricredere. Le conoscenze maturate in questo ambito infatti si possono rivelare molto utili anche per le nostre attività sulla Terra. Ne abbiamo parlato con Angiola Desiderio, ricercatrice ENEA della Divisione Biotecnologie e Agroindustria.
Quali sono le ragioni per cui la ricerca scientifica si sta occupando anche di agricoltura in ambienti non terrestri?
La domanda non è scontata, anche perché parliamo di investimenti economici consistenti, programmati a livello internazionale dalle varie agenzie spaziali. La NASA, per esempio, ha avviato il programma Artemis che mira a portare di nuovo l’uomo sulla Luna attraverso una serie di missioni intermedie. Scopo ultimo è quello di creare una base stabile sulla superficie lunare, con la prospettiva di allargare l’esplorazione umana dello spazio fino a Marte.
In questo senso, la Stazione Spaziale Internazionale (ISS), trovandosi in orbita terrestre bassa, rappresenta una sorta di laboratorio dove si possono sperimentare le soluzioni tecnologiche concepite per portare l’uomo ancora più in là. Ecco, pensiamo che attualmente un veicolo spaziale impiega tra i 6 e i 9 mesi per arrivare su Marte. È chiaro che un simile viaggio solleva la problematica di come sostenere l’autonomia dell’equipaggio, dal momento che gli astronauti non potrebbero più fare affidamento sui rifornimenti continui dalla Terra, come avviene adesso sull’ISS.
E qui entra in gioco lo space farming. Ma come si può realizzare concretamente?
Coltivare fuori da un ambito terrestre significa coltivare in condizioni totalmente artificiali. Bisogna cioè ricreare un ambiente in cui le piante possano ritrovare le condizioni ottimali di luce, di temperatura e di umidità per crescere. E questo riguarda sia la fase di volo, quando gli astronauti potrebbero avere bisogno di cibo fresco durante il viaggio, sia per quanto riguarda in prospettiva la realizzazione di serre spaziali in basi sulla Luna o su Marte.
Quali sono i principali ostacoli da affrontare?
Sicuramente una delle funzioni essenziali delle “serre spaziali” sarà proteggere le piante (e gli uomini) dalle radiazioni solari. C’è poi il problema dell’assenza di gravità. Fondamentale è fare ricerca prima – a Terra ed eventualmente in condizioni di microgravità sull’ISS – per capire come tutti questi fattori estremi possano influire sulla crescita delle piante, sulla produzione, sull’accumulo di sostanze nutrienti.
A questo proposito, si sta approfondendo il ruolo dei sistemi idroponici a ciclo chiuso, che di solito sentiamo nominare in riferimento a una pratica innovativa come il vertical farming. Di che cosa si tratta più nel dettaglio?
L’idroponica è senza dubbio la soluzione principale su cui ci stiamo concentrando, perché dobbiamo coltivare in assenza di suolo. Inoltre, l’idroponica associata a sistemi di coltivazione controllata permette di lavorare in condizioni di estrema pulizia. Ciò consente di ottenere prodotti di alta qualità, senza trattamenti fitosanitari e rischi di contaminazione, a salvaguardia della salute dell’equipaggio.
I sistemi idroponici possono essere gestiti in maniera completamente automatizzata: attraverso uno smart system alle piante collocate su dei tappetini fibrosi viene somministrata una soluzione acquosa con i nutrienti necessari. Le piante riescono a crescere in queste condizioni anche grazie ad appositi impianti di illuminazione a Led (regolabili sia nell’intensità sia nello spettro luminoso) studiati per favorire l’accumulo di sostanze biologicamente attive, cioè in grado di apportare la corretta integrazione alimentare alla dieta degli astronauti. Penso in particolare agli antiossidanti, come le antocianine, che aiutano a contrastare gli effetti dello stress cui il fisico è sottoposto nell’ambiente estremo dello spazio.
Quali sono i vegetali freschi che potrebbero essere coltivati nello spazio?
La soluzione che va per la maggiore è la coltivazione di microverdure. In sostanza, parliamo di varie specie ortive: cavolo, lattuga, barbabietola, sedano, eccetera. Dobbiamo pensare a piante che hanno un ciclo di produzione abbastanza veloce (10-15 giorni). I cotiledoni, ovvero le foglioline embrionali, sono ricchi di componenti biologicamente attivi (vitamine, sali minerali), fino a 40 volte di più rispetto alla pianta adulta, e contengono molto meno sodio, che è un altro elemento critico nella dieta degli astronauti.
Anche dal punto di vista psicologico, è opportuno introdurre dei frutti nell’alimentazione e a questo scopo stiamo utilizzando i sistemi idroponici per coltivare piante come i cosiddetti Micro-Tom. Questi ultimi sono una varietà di pomodoro nano che può essere ottimizzata con tecniche ingegneristiche e presentare una colorazione viola dovuta proprio all’accumulo di antociani.
In che cosa un’insalata “spaziale” è diversa da una terrestre?
Sicuramente le microverdure sono più buone e nutrienti. Hanno infatti un sapore particolarmente intenso, dovuto alla concentrazione di elementi nutritivi più elevata rispetto alle corrispettive piante adulte. Inoltre, se vogliamo usare un termine che oggi va di moda, la produzione idroponica di microverdure è sostenibile, perché non contiene alcun prodotto chimico aggiunto, come insetticidi o diserbanti.
Che cosa s’intende invece per sistemi biorigenerativi di supporto alla vita, altra espressione ricorrente quando si parla di agricoltura spaziale?
Un altro aspetto fondamentale è il riciclo delle risorse per supportare la crescita delle piante nello spazio. Nel film “The Martian” vediamo il protagonista, interpretato da Matt Damon, concimare il suolo di Marte con i rifiuti organici prodotti dall’equipaggio. Ecco, il principio è un po’ lo stesso: gli scarti derivanti della presenza umana nello spazio (inclusi gli scarti alimentari) non devono essere buttati via, ma possono essere utilizzati come fonte di sostanza organica da reimpiegare nella coltivazione delle piante.
Certo, l’operazione non può avvenire tale e quale al film, ma è necessario rielaborare le componenti chimiche presenti nei rifiuti organici attraverso processi di bioconversione. Sarà possibile, per esempio, far rientrare in circolo la biomassa di scarto sotto forma di ammendante dei suoli lunari o marziani. Ovvero si potrà integrare con il prodotto della degradazione dei rifiuti organici il suolo delle superfici planetarie, che è sostanzialmente una sabbia minerale inerte inadatta alla coltivazione.
Un perfetto esempio di economia circolare, insomma.
Esatto. Per quanto riguarda i sistemi biorigenerativi, stiamo introducendo oltre alle piante anche altri organismi che possono recuperare sostanza organica dagli scarti. In particolare, ci stiamo occupando di consorzi batterici, che attraverso processi di digestione restituiscono fertilizzanti, e di insetti degradatori come l’Hermetia illucens, detta volgarmente mosca soldato. L’obiettivo è perfezionare sempre di più quell’ecosistema artificiale che in futuro potrà garantire la sopravvivenza degli equipaggi impegnati in missioni spaziali.
Ci sembra di capire che studi di questo tipo possono essere utili anche per migliorare le cose qui sulla Terra. Del resto, come sottolinea il movimento Fridays for Future, prima ancora che pensare ai viaggi su Marte, forse dovremmo prenderci cura dell’unico pianeta che abbiamo.
Senza dubbio, questo è verissimo. Ricordiamoci comunque che le ricerche condotte in ambito spaziale generalmente permettono di accelerare l’innovazione tecnologica e possono avere ricadute nello sfruttamento sostenibile delle risorse in ambito terrestre. I sistemi di monitoraggio degli impianti di coltivazione sono sostanzialmente quelli del vertical farming che hai citato prima.
Questo che cosa significa? Che dietro c’è un sistema tecnologico di controllo dell’ambiente di crescita e una sensoristica avanzata in grado di valutare lo stato di crescita delle piante e le condizioni ambientali, il tutto coordinato da una piattaforma smart in grado di gestire i dati e di intervenire in caso di variazioni nei parametri. Tutto ciò può essere riproposto in un contesto terrestre, in particolare in luoghi altrettanto inadatti alla coltivazione delle piante. Per esempio le aree desertiche e polari, ma anche gli ambienti urbani. Grazie all’utilizzo di sistemi idroponici, l’idea di avere un prodotto fresco a chilometro zero in una grande città non è così bizzarra.