«In futuro si andrà sempre di più verso esperienze immersive, soprattutto per quanto riguarda dance ed elettronica. E si potenzierà la tecnologia rispetto all’audio. Ma di una cosa resto convinto: non moriranno i classici concerti rock and roll, con i musicisti al centro». Nella settimana di Sanremo abbiamo intervistato Andrea Rosi, Ceo e Presidente di Sony Music Entertainment Italy, una delle figure che conosce di più il panorama musicale italiano e internazionale. La musica, come tante altre industrie, ha vissuto decenni di rivoluzione e trasformazione, trainate dal digitale e da Big Tech un tempo startup, come Spotify. Rosi ha partecipato alla nascita di Vitaminic, azienda fondata alla fine degli anni Novanta da Gianluca Dettori e tra le prime piattaforme europee di download. Proprio da quegli anni siamo partiti per ripercorrere l’evoluzione di una fetta importante del mercato dell’intrattenimento.
Partiamo da Vitaminic, fine anni Novanta. Che periodo era per la musica?
Ero appena uscito da Universal. Avevo letto qualcosa su questo gruppo di ragazzi di Torino che aveva iniziato questa avventura. Tramite amici comuni ci siamo incontrati e mi sono subito appassionato. Erano i primi tempi dello sviluppo del digitale, dell’MP3, del professor Leonardo Chiariglione. Sono entrato nel team ed è stata un’esperienza molto importante. In quel periodo ero l’unico discografico tradizionale ad aver abbracciato la tecnologia, mentre l’industria aveva posto barriere. Vitaminic è stata una delle prime esperienze al mondo, forse addirittura troppo in anticipo.
Come funzionava?
Avevamo nove uffici in giro per il mondo e in ogni paese chiunque poteva uploadare la propria musica attraverso la piattaforma. Centiaia di migliaia di brani. Uno dei miei compiti era convincere le etichette discografiche a rilasciarci il repertorio. Da startup Vitaminic è andata in Borsa nel 2000. Io poi ne sono uscito l’anno dopo.
Balziamo all’oggi. Cosa comporta il tuo lavoro in Sony?
Sony rappresenta il 30% di market share in Italia. Quello che conta di più è che vanta nei propri asset 50 anni di storia della musica italiana. La parte più rilevante: Battisti, Dalla, De Gregori, Venditti, De André. Sentiamo la responsabilità di diffondere e sviluppare questo repertorio non solo tra chi lo conosce ma anche verso le nuove generazioni. Il mio ruolo a capo dell’azienda significa dover sovrintendere, soprattutto il rapporto diretto con gli artisti. Mi occupo delle negoziazioni dei contratti, coordino le attività. Direi che è un lavoro molto sul campo, in un mercato in crescita. Per dare un numero: l’85% del nostro business viene dallo streaming.
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Siamo nella settimana di Sanremo. Diresti che il Festival sta vivendo un momento di innovazione?
Con la quinta edizione di Amadeus ha fatto senz’altro un grosso salto di qualità, già avvisto sotto la direzione artistica di Baglioni. Ma più che di innovazione parlerei del fatto che oggi Sanremo rappresenta la realtà del mercato in Italia. In passato era un evento televisivo legato alla tradizione, oggi è lo specchio del consumo digitale delle nuove generazioni. È diventato molto rilevante: nella classifica top 50 di questa settimana compaiono brani di Sanremo 2023. Il ciclo di vita di questi prodotti si sta allungando.
Eppure c’è chi non condivide. Il cantautore Gino Paoli ha parlato di un Sanremo dove arrivano soprattutto canzoni di m****
Non condivido. E non condivido il concetto di canzone di m****. Cosa vorrebbe dire? Ci sono cose che non sopporto, non mi piacciono, ma è una cosa mia. La musica è un’espressione culturale, rappresenta la realtà sociale di oggi. Certe espressioni musicali molto vicine ai teenager odierni sono distanti dai gusti della mia generazione.
Il mercato è cambiato molto con la tecnologia e il web. L’AI potrebbe fare altrettanto?
La tecnologia non ha influenzato la qualità artistica dei contenuti, ha solo cambiato il comportamento delle persone. Secondo me bisogna capire, dopo l’avvento dello streaming, quali saranno le fruizioni della musica in futuro. Non ci sarà più possesso della musica, ma accesso alla musica ed è un elemento ormai consolidato. L’AI è nella fase iniziale, ecco perché serve stabilire regole. Quanto influenzerà la parte artistica, dipenderà anche dallo sviluppo della cultura.
Nel 2023 lo sciopero di attori, sceneggiatori e autori a Hollywood ha messo sul tavolo i timori dei professionisti rispetto all’AI. Potrebbe accadere qualcosa di simile anche nella musica?
È il tema che stiamo affrontando a livello di categoria. Dobbiamo difendere i diritti dei nostri artisti, ancor prima che scendano in campo loro. Bisogna affrontarlo subito.
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Da anni i Måneskin sono il gruppo italiano più conosciuto e ascoltato al mondo. Li segui dal giorno zero. Che cosa ci racconta la loro storia?
Sono un fenomeno globale: i loro mercati spaziano da USA, Europa, Sud America e Giappone. E come tutti i fenomeni importanti sono irripetibili. Hanno avuto questo successo perché i ragazzi hanno una forza e una applicazione al lavoro incredibili, oltre che un talento fuori dal comune. Sono arrivati in un momento in cui mancava nel mondo un gruppo giovane rock. A rendere tutto ancora più straordinario è il fatto che siano partiti dall’Italia, che di solito non esporta queste produzioni. I Måneskin non sono considerati una band italiana, anche se la loro italianità è un punto di forza.
I Måneskin sono partiti esibendosi in strada. Per un artista emergente qual è il consiglio che daresti per crescere?
I social sono fondamentali, ma consiglio di essere sempre se stessi. A prescindere che ci si riesca a connettere con tante o poche persone. Le cose costruite non funzionano. Funzionano quelle vere. La musica è un lavoro molto duro, molto difficile.
Ed è anche un’industria globale come dimostra la scelta del Time di nominare Taylor Swift persona dell’anno nel 2023
La differenza è che oggi con la rete tutto si amplifica, in tempi immediati. Il fenomeno Swift è incredibile. L’organizzatore italiano dei suoi concerti mi diceva che ha fulminato i biglietti in pochi giorni. Potrebbe fare il doppio dei concerti che ha in programma. I concerti poi sono fenomeni importanti, di aggregazione. Direi che sono qualcosa in controtendenza rispetto ai social network.
Esiste un Paese di frontiera per la musica?
Prima c’erano UK e USA, oggi abbiamo più mercati importanti. Direi che un Paese dove c’è un potenziale di sviluppo enorme è la Cina, così come l’India. Fino a qualche anno fa il Sud America era in difficoltà, mentre oggi Messico e Brasile sono nei top 10 mercati del mondo.
Cosa pensi di quanto accaduto tra TikTok e Universal?
Questo è un tema che stiamo affrontando da molto tempo. Riguarda il value gap: significa pretendere che la musica venga retribuita in maniera corretta. È chiaro che apriamo tavoli di trattativa cercando di difendere i nostri artisti. Nel caso di TikTok, Universal ha rotto perché, come hanno comunicato, non ha ritenuto che si rispettassero i diritti. Ma penso che un accordo si troverà.
Nei decenni sono cambiati anche i dispositivi e gli ambienti in cui ascoltiamo musica. Oggi abbiamo visori e infrastrutture come The Sphere a Los Angeles. Che rapporto ha tutto questo con la creatività?
Nel caso di The Sphere da una parte è un’esperienza immersiva incredibile, dall’altra alcuni critici dicono che distoglie dalla performance. Come se diventasse un corollario. Si andrà sempre di più verso esperienza visive immersive, soprattutto per quanto riguarda dance ed elettronica. Ma difficilmente moriranno i classici concerti rock and roll, con i musicisti al centro.