Privacy weekly | Il guest post di Guido Scorza, avvocato e componente del Collegio del Garante per la Protezione dei dati personali. Un viaggio intorno al mondo su tutela della privacy e digitale
Getty Images, una delle agenzie fotografiche più grandi e famose di tutti i tempi ha appena annunciato il lancio di una piattaforma di AI generativa capace di creare ogni genere di contenuto grazie ad algoritmi addestrati esclusivamente sul proprio sterminato repertorio fotografico. La caratteristica principale della nuova piattaforma risiederebbe nella circostanza che i contenuti così creati non violerebbero i diritti d’autore di nessuno e che i creatori delle opere originarie utilizzare per l’addestramento degli algoritmi sarebbero “remunerati”, anche se non è chiaro come e quanto dalla stessa Getty Images. Bene, da un lato.
Siamo davanti a un esempio almeno apparentemente virtuoso di servizio di intelligenza artificiale non basato sulla pesca a strascico di quantità industriali di contenuti in giro per il web ma sulla raccolta di dati e contenuti in un latifondo digitale chiuso, appartenente più o meno a un solo latifondista, Getty Images, appunto. Un esercizio importante e prezioso per dimostrare come sia possibile sfruttare la straordinaria opportunità offerte dall’AI senza necessariamente cannibalizzare contenuti, dati e informazioni sui quali insistono – o, almeno, possono insistere – dozzine di diritti di terzi. E, però, qualche dubbio in relazione all’iniziativa in questione è almeno legittimo. Lasciamo da parte, per un istante, le questioni – pure rilevanti – legate al diritto d’autore perché non sembra così facile pensare che Getty disponga effettivamente di tutti i diritti necessari a consentire lo sfruttamento commerciale per l’addestramento algoritmico e la generazione di nuovi contenuti partendo dal suo patrimonio, patrimonio stratificatosi negli anni, con accordi di licenza non tutti eguali l’uno all’altro. Ma questa, appunto, è un’altra storia.
Così come è un’altra storia quella relativa alla misura dei compensi che sembrano destinati ai fotografi e videomaker autori delle opere originarie utilizzate da Getty per consentire agli utenti della sua nuova piattaforma la generazione di nuovi contenuti “artificiali”. Chi ha deciso quanto spetta loro e quali saranno i criteri del riparto dei diritti tra centinaia o migliaia di titolari dei diritti le cui opere potrebbero tutte essere egualmente – o meno egualmente – utilizzate per generare nuove opere?
Il punto centrale però è un altro. Se come sembra la nuova piattaforma potrà generare nuove opere anche partendo da immagini che ritraggono persone in carne ed ossa, come fa Getty a suggerire che sia tutto regolare? Come fa a dirsi certa che tutti i soggetti ritratti nelle immagini utilizzate per l’addestramento dei propri algoritmi non abbiano nulla in contrario a che i loro dati personali siano trattati a questo fine? La lettura delle condizioni generali del nuovo servizio non scioglie questo nodo. Si parla tanto di copyright ma niente o quasi niente di privacy, di protezione dei dati personali, di diritto del singolo di dire no al trattamento dei propri dati personali per l’addestramento degli algoritmi di Getty Images. Ecco, anche a prescindere da qualche riserva in materia di diritto d’autore, sotto questo profilo sembra difficile potersi dire certi per davvero che vada tutto bene. Oltre al diritto d’autore, nella società degli algoritmi, c’è di più e non ci si può dimenticare della privacy, diritto di dignità e libertà delle persone. Questo, naturalmente, non significa che non si possa lavorare su progetti come quello appena lanciato da Getty Images ma solo che nel farlo non ci si può dimenticare dei diritti delle persone alle quali si riferiscono i dati personali utilizzati, tra l’altro, per addestrare gli algoritmi.
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