I troll russi hanno sfruttato le pieghe del sistema di pubblicità mirata del social network. Oppure hanno approfittato di celebrità inconsapevoli per amplificare la loro propaganda
L’inchiesta sul cosiddetto “Russiagate” continua a destabilizzare lo staff del presidente americano Donald Trump. Le presunte interferenze del governo russo sulla campagna presidenziale dei due contendenti alla Casa Bianca alle ultime elezioni negli Stati Uniti stanno diventando un serio problema, che sta coinvolgendo anche i colossi del web americano: Facebook su tutti.
Il caso Facebook
La stessa azienda fondata da Mark Zuckerberg ha ammesso, in una dichiarazione scritta depositata presso la Commissione Giustiza del Senato che sta indagando sul Russiagate, che i contenuti sponsorizzati da Mosca potrebbero essere stati visti da 126 milioni di americani. Circa un elettore su due, insomma, potrebbe essere stato condizionato nella sua scelta dalla propaganda russa. Ma come è stato possibile? Come sono riusciti a sfruttare in questo modo i social network, senza che nessuno se ne rendesse conto?
La rivelazione solleva parecchie questioni sulla responsabilità delle piattaforme come Facebook e Twitter. L’aspetto più inquietante della vicenda è che per i russi è stato relativamente facile. E’ ormai noto che Facebook conosce i nostri gusti, sa chi siamo, sa cosa abbiamo cercato online e a quali contenuti abbiamo dato il nostro “like”. E’ proprio su questo sistema che si sono inseriti i troll russi, andando a puntare quelle fasce di utenti che avevano messo il “like” alle pagine ufficiali di Donald Trump e Hillary Clinton, ma anche di Martin Luther King e di altri esponenti politici. Così facendo hanno potuto indirizzare i propri contenuti, decidendo in maniera mirata il target di chi doveva ricevere il messaggio.
Non c’è modo di sapere con esattezza quali sono stati gli utenti che hanno visto i post “incriminati”. Il legale di Facebook, Colin Stretch, ha detto di aver notificato a tutti gli iscritti al social network questa pratica, ma di non poterlo fare individualmente con specifiche persone.
I contenuti che gli americani hanno letto non sono stati dunque solo quelli promossi da politici americani legittimati a farlo o da agenzie pubblicitarie: i post erano scritti a Mosca. Il problema è che il sistema di post pubblicitari di Facebook è automatizzato, non ci sono persone fisiche che ne analizzano la provenienza. Spesso i troll russi si sono nascosti dietro nomi che potevano sembrare più che legittimi, come “Donald Trump America”. Non hanno dovuto neanche spendere molti soldi per essere efficaci: se i target sono mirati, come sappiamo essere le categorie di utenti selezionate da Facebook (sesso, età, provenienza, ma anche su interessi più specifici) il messaggio è capace di diffondersi in maniera estremamente rapida.
Lo scudo delle celebrità
La cosa più sorprendente di tutte è che i russi hanno sfruttato persino le celebrità per amplificare la portata dei propri contenuti. Per fare un esempio, nell’aprile dello scorso anno la rapper Nicki Minaj ha condiviso un messaggio, relativo ad una sparatoria avvenuta negli Stati Uniti, dall’account @Ten_GOP. Un nome che richiamava il partito repubblicano del Tennessee, che si è invece scoperto essere un troll russo intenzionato ad infiammare le proteste.
Il post di Minaj è stato condiviso 24.600 volte, raggiungendo così centinaia di migliaia di americani. Chiunque potrebbe aver condiviso contenuti creati ad hoc per influenzare la campagna. Il numero impressionante di 126 milioni di americani raggiunti da questi contenuti appare allora fin troppo realistico.
Si pone quindi un doppio problema, politico e tecnologico, che coinvolge tanto i governi quanto le grandi aziende tecnologiche della Silicon Valley. I due mondi sono ormai più interconnessi di quanto crediamo e sciogliere il nodo sarà estremamente difficile.