«Siamo nella fase post tassi di interesse negativi. Una volta si raccoglieva con qualsiasi progetto, ora a livello europeo il mercato appare più oculato nelle sue scelte. Sarà un bene per i veri progetti di valore». Nel nostro percorso alla scoperta dei protagonisti del Venture Capital abbiamo fatto tappa a Torino, per parlare con Giovanni Tesoriere, Ceo di LIFTT, holding lanciata alcuni anni fa e che finora ha raccolto circa 104 milioni di euro.
L’intervista al Ceo di LIFTT
In portfolio privilegia le innovazioni in ambito industriale, dal tech transfer ai brevetti. Investe in Italia e all’estero – ha partecipato all’ultimo round da 26 milioni di dollari di Evergreen Theragnostics, scaleup americana impegnata nell’ambito dei radiofarmaci per pazienti oncologici. «In alcuni casi siamo l’unico investitore. Abbiamo un imprinting molto industriale».
Fondare una realtà di Venture Capital è come lanciare una startup?
LIFTT è ancora un progetto in fase di startup. Ha un modello di business che stiamo migliorando nel tempo. È nata con un socio unico, la Fondazione LINKS, a sua volta partecipata da Compagnia di San Paolo e Politecnico di Torino. L’obiettivo era una società che valorizzasse le proprietà intellettuali generate dagli atenei. Al progetto si è unito Stefano Buono (chairman, ndr), io sono entrato in seguito. Ci siamo resi conto presto che una società di solo screening dei progetti era limitante: bisognava investire direttamente.
Fare startup è complesso, in qualsiasi campo. In certi settori va poi considerato il tempo necessario richiesto per validare un’innovazione
Molti progetti nel biotech ad esempio richiedono più di dieci anni per esprimere il massimo del proprio potenziale. Il nostro focus è più sull’industriale, meno sul digitale. Ci concentriamo sul tech transfer, da dove siamo partiti. Solo che partendo dalle università per generare grandi realtà industriali serve un processo lungo.
Questo ha a che vedere anche con la preparazione imprenditoriale all’interno degli atenei?
Il ricercatore italiano ha un know how tecnico spaventoso, ma a differenza degli USA, dove l’imprenditorialità è sviluppata, resta un ricercatore puro. Bisogna fare su questo un lavoro importante: è fattibile, ma richiede i suoi tempi. In generale entriamo in progetti in una fase molto iniziale.
Una delle particolarità di LIFTT è che siete un team composto soprattutto da tecnici. Ciò si traduce in un qualche valore aggiunto?
Ci sono 25 persone e, ad esclusione del nuovo team M&A, nessuno viene dal mondo della finanza. Io, ad esempio, sono un chimico farmaceutico. Se lavori in un Venture Capital e ti si presenta un progetto di un ricercatore che non ha mai fatto l’imprenditore, con solo un brevetto in mano, è ragionevole essere cauti. Si attende una fase forse più matura, vicina alle vendite. Il nostro scopo è diverso: prendere brevetti e persone per trasformarli in aziende. Siamo più furbi degli altri? No, ma sono cose che abbiamo già fatto.
Come si struttura il portfolio di LIFTT?
Abbiamo raccolto circa 104 milioni e abbiamo investito finora 61,9 milioni in più di 50 società. Abbiamo un ritmo di investimento molto elevato. Agiamo su più fasi: dai 300mila euro fino ai 10 milioni. Accompagniamo le aziende in vari round, portandoci dietro altri investitori. L’obiettivo è creare un monster portfolio, con 100 startup e un domani potremo puntare a 300. Per ridurre il rischio investiamo su un numero importante di aziende, per diversificare. Le nostre sono nicchie, come la fotonica. Impossibile pensare di puntare soltanto su un settore.
Siete attivi anche all’estero
Riduciamo il rischio Paese nella percezione dell’investitore. Non è detto che i progetti belli siano soltanto in Italia. Siamo un player internazionale, con investimenti in 13 startup con base estera, e nel Paese con uno dei debiti privati più bassi al mondo dobbiamo convincere gli investitori privati che il Venture Capital può dare ottimi ritorni.
Il 2023 è stato un anno complesso. Nel 2024 si parla di una normalizzazione in corso anche sul fronte fundraising. Qual è la tua opinione?
Siamo nella fase post tassi di interesse negativi. Una volta si raccoglieva con qualsiasi progetto, ora a livello europeo il mercato appare più oculato nelle sue scelte. Sarà un bene per i veri progetti di valore. Dobbiamo evitare casi come quello di WeWork. Vogliamo un ecosistema sano per l’investimento nell’economia reale. Perché investire in startup questo significa. Siamo in un momento di assestamento, di ritorno alla normalità. In passato certe società raccoglievano round 100X le vendite, ma non era un multiplo corretto. Oggi c’è qualcosa di più sostenibile.
Resti dunque ottimista rispetto alla direzione intrapresa dall’Italia sul fronte innovazione e startup?
Rispetto alla Francia il VC è senz’altro indietro, ma ha tagli di investimento interessanti. È corretto che CDP Venture Capital spinga sull’AI. Quel che penso è che in Italia restiamo sempre bravi nell’industria e dobbiamo puntare a quello. Il tessuto italiano è industriale. Ecco perché investiamo su progetti tangibili. Il 70% del nostro portfolio è italiano.
La vision è quella di lanciare le industrie e le PMI del domani?
Investiamo in società che possono diventare eccellenze industriali e in altre che sviluppano tecnologie che in mano a industrie le renderanno a loro volta eccellenze. La PMI italiana non può investire in un progetto di ricerca da 30 milioni. Quello è il nostro lavoro, che mettiamo a disposizione quando maturo. Ci assumiamo noi quel rischio.