Il caso che sta scuotendo la società USA
«Quel che ho visto in Facebook più e più volte è che c’erano conflitti di interesse tra ciò che era bene per il pubblico e ciò che era bene per Facebook. E Facebook ha scelto di privilegiare i propri interessi, come fare più soldi». Nella puntata di domenica scorsa di 60 Minutes, noto programma televisivo negli Stati Uniti, la data scientist Frances Haugen, ex dipendente di Facebook, è uscita allo scoperto come la whistleblower che da quasi un anno sta rivelando alla stampa le pratiche del gruppo. Nell’intervista televisiva ha preso di mira la società di Mark Zuckerberg sotto vari punti di vista.
Frances Haugen, una carriera nel mondo tech
A 37 anni, ha un’esperienza di 15 all’interno di aziende tech come Google e Pinterest. Nel 2019 il suo ingresso in Facebook nel gruppo che avrebbe dovuto monitorare e intervenire contro la disinformazione sulla piattaforma. Di mezzo c’è stata la campagna elettorale del 2020, che ha portato ai noti fatti dell’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio 2021. Ma cosa è successo nel frattempo?
Frances Haugen: un lavoro impossibile
Sono mesi che il Wall Street Journal, seguito dalla stampa internazionale, sta indagando e riportando accuse anonime (ora non più) contro Facebook. Il 2 dicembre 2020 è stata proprio Frances Haugen a entrare in contatto con un giornalista della testata statunitense per denunciare sotto protezione dell’anonimanto la situazione interna alla società: quando ha iniziato a lavorare per Menlo Park la data scientist era stata inquadrata nel Civic Integrity team, gruppo incaricato del delicato compito di contrastare potenziali fake news sulla piattaforma a scopi politici. Nel giro di un anno ci sarebbero state le elezioni USA e sappiamo tutti quanto in un’epoca per giunta di pandemia la faccenda disinformazione sia stata cavalcata in tutto il mondo. Al team di Frances era stato dato un tempo di appena tre mesi per mettere in piedi una barriera contro questa ondata di fango e violenza verbale.
Alla fine il
Civic Integrity team avrebbe perso la sua guida,
Samidh Chakrabarti, dimessosi il 2 dicembre 2020, spingendo così Frances a prendere una delle decisioni più complesse della sua vita. In pochi anni era arrivata alla conclusione che l’azienda per cui lavorava non stava dedicando sufficienti sforzi e risorse per garantire un dibattito non violento. Nelle ultime ore l’ex dipendente di Facebook ha pubblicato un
tweet in cui spiega che «insieme possiamo creare social media che tirano fuori il meglio di noi». Come ha riassunto
il Post, quel che
Frances sta cercando di dimostrare è che internamente la multinazionale non avrebbe mai avuto l’intenzione di perseguire obiettivi nobili come la lotta alla disinformazione.
L’algoritmo per la rabbia
Tutto sembrerebbe essere cambiato nel
2018, con l’aggiornamento degli
algoritmi. Da allora, come si legge su
Protocol, la
priorità massima è stata data all’engagement, ovvero alla viralità di contenuti che dovevano essere condivisi, commentati e sommersi da like. Ed è ovvio che i post, video e foto candidati a questo profilo sono proprio quelli che fanno leva su emozioni estreme come la rabbia. Da tempo il gigante dei social network –
2,9 miliardi di utenti in tutto il mondo – sta vivendo uno dei momenti più difficili della propria storia, forse paragonabile allo scandalo di
Cambridge Analytica. «Facebook – le parole della
Haugen – ha capito che se cambiano l’algoritmo affinché il social diventi più sicuro, la gente allora ci passerà meno tempo, cliccherà meno annunci. E dunque Facebook farà meno soldi».
Vi segnaliamo infine un lungo approfondimento su
Gizmodo, sul quale potete trovare tutto quello che è emerso dall’intervista a 60 Minutes. Citiamo, ad esempio, la questione minori e Instagram. Facebook – che controlla il social network delle immagini – avrebbe sempre saputo di quanto la piattaforma possa essere dannosa per la
salute mentale dei più piccoli. Eppure non avrebbe mai fatto abbastanza secondo l’ex dipendente. In conclusione citiamo una nota rilevante. Negli USA esiste una legge, la
Dodd-Frank Act, che tutela i cosiddetti
whistleblower: nessuna azienda può proibire ai propri dipendenti di parlare con la
SEC – l’equivalente della Consob americana – e condividere con loro materiale interno. Tuttavia, nel caso di
Frances Haugen, la data scientist si è rivolta a un giornalista con cui ha condiviso anche migliaia di file raccolti quando lavorava per Facebook.