Anche gli unicorni si azzoppano. Pochi mesi fa TechCrunch ha titolato “Losing the horn”. Ma è davvero così? Su StartupItalia al via un confronto con i VC sui campioni mondiali dell’innovazione. Intervista alla Head of Investments & Venture Building di Vento
Unicorni scornati è il nostro speciale sullo stato di salute degli unicorni e quindi sulle aziende valutate almeno 1 miliardo di dollari. Pochi mesi fa TechCrunch ha pubblicato un articolo dal titolo assai eloquente: “Losing the horn”. «Gli ultimi anni sono stati su un ottovolante per il branco di unicorni del mondo delle startup. Due anni fa abbiamo visto un numero record di aziende superare il traguardo della valutazione di 1 miliardo di dollari. Ma quello slancio si è rallentato fino a ridursi lo scorso anno e le condizioni di mercato di questo 2023 sembrano destinate a invertire la rotta», ha scritto Rebecca Szkutak. Noi siamo partiti da una semplice domanda: che fase storica è per gli unicorni in Italia e nel mondo? Un modo per comprendere lo stato di salute dei grandi player tra rischi, cautele, opportunità.
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«Arriviamo da un lungo periodo di iper valutazioni, che non rispecchiavano il vero valore delle aziende. Forse ora andremo verso un modello più equo». Nel nostro percorso editoriale Unicorni scornati stiamo andando alla ricerca delle opinioni di esperti ed esperte del settore sullo stato di salute dell’ecosistema dell’innovazione globale, con un occhio di riguardo verso i campioni, gli unicorni. Partendo da un articolo di TechCrunch abbiamo chiesto pareri a venture capitalist e investitori. Diyala D’Aveni è Head of Investments & Venture Building di Vento, il chapter italiano di Exor Ventures. Il primo trimestre 2023 è stato in parte dominato dal dibattito sul crollo della Silicon Valley Bank, con le ripercussioni che ciò ha avuto su migliaia di startup. Ma, sfuggendo dai luoghi comuni, si capisce che la situazione attuale – ancora presto per parlare di crisi – non è colpa delle startup.
«Il punto essenziale non è la crisi degli unicorni – spiega D’Aveni – ma la crisi di mercato. Il fatto che il credito costi di più ha fatto sì che si investisse meno, con valutazioni in calo. Di base il problema non viene dal mondo delle startup, ma dal mondo del capitale». Uno dei punti in comune tra tutte le persone che abbiamo intervistato in Unicorni scornati è il fatto che ci si trovi di fronte a un fenomeno ciclico. «E non è che fino a poco tempo fa la situazione fosse rosea». Gli anni della pandemia, la guerra in Europa, l’inflazione hanno pesato sulla quotidianità di tante aziende innovative, unicorni compresi.
Le proiezioni sull’Italia
Diyala D’Aveni fa parte di uno dei soggetti più importanti del panorama VC in Italia e, come tutti gli altri attori che puntano sul nostro paese, guarda all’ecosistema con grande ottimismo. Al momento la situazione per gli unicorni nel nostro paese ci vede ancora lontano da altri Stati europei, come Francia, Germania e UK. Occorre guardare al futuro con positività, ma anche con realismo. «Abbiamo una tesi: tra tre anni l’Italia sarà dove al momento si trova la Spagna. Certo, saremo comunque indietro rispetto ad altri. Noi vorremmo essere presenti come investitori in almeno la metà degli unicorni che si saranno formati». L’obiettivo di Vento è raggiungere 100 investimenti all’anno (nel primo di attività ne ha conclusi 30).
«L’ecosistema italiano non è ancora abbastanza sviluppato», secondo D’Aveni. Ma il quadro si può vedere da varie angolature: lato venture capital l’Italia ha fatto grandi passi avanti in pochi anni, riuscendo a battezzare decine di soggetti, dagli istituzionali fino ai business angel, con una grande presenza del pubblico grazie a CDP Venture Capital; se si guarda alle startup le difficoltà, chi ci legge sa, non mancano. «Ci sono enormi problemi nel costituire una società a livello di burocrazia. Ma anche per attrarre talenti dall’estero: è complicato ottenere una VISA per figure professionali estremamente competenti che magari vorrebbero venire in Italia per lanciare una startup».
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Raccontami degli unicorni
E per gli unicorni? Fermo restando il fatto che in Italia sono pochi, esistono altre ragioni per le quali siamo indietro? Diyala D’Aveni propone una lettura storica e al tempo stesso culturale, con la quale è difficile trovarsi in disaccordo. «Gli unicorni sono pochi quindi le persone esposte a queste storie sono poche. Non è ancora entrato nella cultura del paese il fatto che un talento, invece di andare in consulenza, possa lanciare la propria azienda». Un paragone frequente che si fa è tra noi e la Francia. «Culturalmente non siamo diversi, eppure loro ha avuto grandi storie successo. Tante persone che lavoravano early employee dentro ad aziende innovative hanno poi fondato altre startup».
Tra le chiavi per dare il via a un ciclo virtuoso senz’altro va citata la diffusione di storie di persone e aziende in grado di ispirare i giovani e le nuove generazioni su alternative possibili. «Per noi la differenza la fanno le persone. Il motivo che ci spinge a lavorare è che per lo sviluppo di un ecosistema italiano occorra puntare sui talenti, che oggi raramente vogliono fare gli imprenditori e le imprenditrici. Nessuno pensa di fare startup. Se invece riusciamo a creare storie di successo i nuovi talenti guarderanno a chi già ce l’ha fatta».
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La prospettiva di un ecosistema globale meno dipendente dagli hype e più ancorato a tecnologie e innovazioni durevoli e di impatto è auspicabile da parte di tutti. Gli unicorni, tra inevitabili alti e bassi, continueranno a galoppare e a essere espressione fondamentale dei singoli distretti nazionali. Se guardiamo all’Italia, il punto di partenza non possono che essere le persone secondo D’Aveni. E le loro storie. «Non si viene ancora abbastanza esposti alla possibilità di diventare imprenditori. O hai la fortuna di aver una storia di impresa in famiglia, o sei stato all’estero, altrimenti non ti viene in mente che questa sia una possibilità. In Italia non manca il supporto, ma mancano le storie di successo e la consapevolezza che intraprendere un percorso imprenditoriale di successo è possibile».