Ha vissuto gli esordi nel nostro ecosistema, per poi rappresentarlo nella Bay Area. Oggi lavora in un fondo VC a Menlo Park ed è autrice di una newsletter. La nuova puntata della rubrica “Italiani dall’altro mondo”
«È stato molto bello vivere in Italia quegli anni. Le leggi di Corrado Passera, le prime startup, i primi fondi di Venture Capital. Mi ricordo anche del gruppo Facebook Italian Startup Scene lanciato da Stefano Bernardi. C’era un bel movimento, molto nuovo e inesperto. Con una gran voglia di fare. Quando però sono arrivata in Silicon Valley ho capito che qui giocavano un altro sport». Per la rubrica “Italiani dall’altro mondo” Irene Mingozzi è un profilo che seguivamo da tempo (nella foto di copertina, che ci ha fornito lei stessa, un esempio di come la vede un’intelligenza artificiale generativa). Silicon Valley Dojo è la newsletter di cui è autrice insieme a Massimo Sgrelli e Luigi Bajetti, entrambi General Partner di Lombardstreet Ventures, società VC con sede a Menlo Park. Da Ciceroni di quest’angolo della California, il più iconico al mondo per chi fa startup, spiegano quel che proprio non può mancare in valigia e nella testa di chi sogna un futuro da imprenditore negli Stati Uniti. Torniamo però a Mingozzi e al suo viaggio inaspettato in due ecosistemi dell’innovazione molto diversi tra loro.
Dall’advertising alle startup
Di Forlì, 35 anni, Irene Mingozzi ha studiato Comunicazione a Bologna. «Da piccola inventavo le pubblicità e facevo finta di vendere cose a mia mamma. Ho da sempre la passione per lo storytelling e i suoi riflessi concreti. Alla fine, però, ho scoperto che l’advertising non mi piaceva». Mentre cercava di capire che alternativa seguire, ecco il primo contatto con l’ecosistema italiano. «Un mio professore mi ha proposto uno shadowing con lui, al di fuori dell’università. Lui faceva il mentor in un’acceleratore, per un percorso gestito da ART-ER (la Società Consortile dell’Emilia-Romagna che ritroveremo tra poco, ndr).
Così Mingozzi ha iniziato a seguirlo giorno dopo giorno da un punto all’altro della regione, per incontrare startup, organizzazioni ed esperti. «Era il 2010 e mi si è aperto un mondo. Passavo le giornate a fare quello che faceva lui, seguivo le riunioni e ci dividevamo i compiti. Si è trattato di un internship grazie al quale ho capito come funzionava il mestiere». Dopo quella parentesi iniziale, ha applicato con successo per una posizione in ART-ER. Rimasta in Italia fino al 2015, ha avuto modo di vivere i primi anni dell’ecosistema startup.
«Inutile girarci attorno: la Silicon Valley è 40 anni avanti a noi. Quando spieghi negli Stati Uniti che in Italia c’è una legge che definisce cos’è una startup, non capiscono. Credo che in quegli anni non siano stati commessi errori, ma ingenuità. Da qualche parte bisognava pur cominciare. Ho sempre avuto un’opinione positiva su come si è sviluppato il tessuto delle startup». Tanto che è proprio l’Italia ad averle dato l’opportunità di prendere un volo per la Bay Area. «Mi sono trasferita qui per dirigere l’hub dell’innovazione dell’Emilia-Romagna».
Il salto in USA
Il suo lavoro, che le sarebbe tornato utile per la carriera nel mondo VC, è stato mappare tutto l’ecosistema, individuando gli attori utili per l’Italia. «Ho incontrato tutti gli acceleratori per mettere in contatto le nostre startup. In sostanza costruivo ponti. Tutti i diamanti grezzi dell’Emilia-Romagna sono passati da qua. È andata così bene che quando ho lasciato il lavoro l’organizzazione non connetteva soltanto startup, ma anche PMI e università. E il raggio d’azione non si limitava alla Silicon Valley, ma ai principali hotspot tra Stati Uniti e Canada». In poche parole ha sperimentato quel che poi ha messo in pratica in un fondo. «Ho fatto da traduttrice di mindest per chi veniva negli USA dall’Italia».
Ora Irene Mingozzi è senior associate di Lombardstreet Ventures, verticale su alcuni settori come il SaaS. «Abbiamo oltre 60 startup in portfolio, divise in due fondi.». Con i due General Partner ha condiviso per anni quello sforzo che oggi si manifesta periodicamente attraverso la newsletter su Substack. «Ci conoscevamo già con Massimo e Luigi. Volevamo tutti la stessa cosa: aiutare gli italiani in Silicon Valley». La terra dell’innovazione sembrerebbe una destinazione scontata e molto in voga tra i nostri connazionali. «E invece non ce ne sono ancora abbastanza. Anche se da quando abbiamo lanciato DoJo abbiamo notato qualche arrivo in più».
“Musk? Non credo vada bene come role model. Senz’altro è uno che si sporca le mani. Qui c’è gente che lo seguirebbe in capo al mondo”
Perché una newsletter
Disponibile gratuitamente sulla piattaforma Substack, questa newsletter è un appuntamento imprescindibile non tanto con le notizie della Silicon Valley, ma con le istruzioni per conoscerla. Ogni puntata si focalizza su tematiche specifiche, preziose per chi ha l’illusione di arrivare a San Francisco e iniziare a raccogliere fondi in pochi giorni («è l’errore di valutazione più grande che ho visto fare qui»). Capiamo dunque con Irene Mingozzi gli obiettivi di Silicon Valley Dojo.
«Anzitutto il give back: i due founder hanno sempre voluto dare valore alla community italiana. E poi c’era un problema: moltissime delle startup che loro incontravano erano impreparate. Perciò la newsletter è nata con lo scopo di dare una base di formazione». Dall’Italia siamo abituati al fatto che in Silicon Valley l’attualità tech venga raccontata da testate e free lance che coprono soltanto quel settore talmente è centrale per economia, società e lavoro. «L’ecosistema è raccontato moltissimo anche dagli attori che lo compongono. Quasi tutti i VC hanno newsletter». Oltre a questo Mingozzi ha da poco avviato anche un progetto chiamato “Paul Graham: il pifferaio magico dei nerd”: l’obiettivo è tradurre in italiano tutti i contenuti pubblicati dal cofounder di Y Combinator, tra gli acceleratori più famosi al mondo, per farne una serie podcast.
Il lavoro del VC
Tanti sognano di fare gli startupper. Meno consueta è la vocazione a fare il venture capitalist. «È un lavoro bellissimo, soprattutto in fase pre seed e seed. Ti concentri sulle persone e sull’approccio che hanno nell’execution. Il nostro compito si riassume nel capire se quel founder sarà capace o meno di portare a casa il risultato». Si potrebbe pensare tuttavia che per partecipare a un round di una startup, ad esempio, della space economy l’investitore debba saperne molto sull’argomento.
“Non devi saperne più del founder. Se guardi ai profili degli investitori pre seed e seed sono persone con competenze orizzontali”
«In realtà non devi essere più preparato del founder – argomenta Mingozzi -. Ovviamente bisogna fare una due diligence tecnica. Ma se guardi ai profili degli investitori pre seed e seed sono persone con competenze orizzontali». La fase specifica di cui stiamo parlando nella vita di una startup, ovvero gli esordi, non può non tener conto di cambi radicali di programma. «Faccio il nostro esempio: il 40% delle aziende in portfolio ha pivotato. Investi talmente presto che è normale accada».
Al di là di Neumann, Holmes e FTX
L’occasione dell’intervista a Irene Mingozzi è stata utile anche per ottenere uno spaccato su come è oggi la Silicon Valley, vista da una professionista che la vive. Siamo partiti dalle news più importanti, come il fallimento dell’exchange FTX. Come vi abbiamo raccontato il più grande fondo californiano Sequoia Capital si è scusato con gli investitori. «Sì, è vero, ha mandato una lettera di scuse. Dicendo che però quel fondo ha registrato complessivamente un ritorno di 7 miliardi di dollari». Che dire poi dei founder che hanno conquistato l’immaginario collettivo per poi inciampare o con il board o con la giustizia? Ci riferiamo ad Adam Neumann, ex Ceo di WeWork, ed Elizabet Holmes, condannata di recente a 11 anni di carcere per il caso Theranos.
«Neumann e Holmes sono quelli che fanno più rumore. Spesso su news così roboanti pochissima gente va a fare analisi di quel che è realmente successo. Rispetto a Theranos Holmes ha peccato di hybris, voleva attuare il metodo break things and move fast in un ambito come quello della salute, dove non è possibile farlo. Credo fosse ubriaca della sua stessa idea e non banalmente una che voleva truffare a prescindere». E che dire su Musk, che un mese fa ha acquisito Twitter per 44 miliardi di dollari? «Non credo lui vada bene come role model. Senz’altro è uno che si sporca le mani. Qui c’è gente che lo seguirebbe in capo al mondo».
Dopo tre anni dallo scoppio della pandemia, cosa c’è sotto la superficie più esposta della Silicon Valley? «Sono arrivati tantissimi giovani. Founder di 19 anni che hanno costruito business attorno al web3 per fare una rivoluzione. Di recente abbiamo visto anche un’ondata sull’intelligenza artificiale con figure più mature. D’altra parte in Silicon Valley i founder sono tutti CTO. Non esiste un CEO che non sia anche un tecnico». E per quanto riguarda l’inclusione? La Silicon Valley non eccelle per la rappresentanza di genere e delle minoranze ai vertici. «Ci sono fondi che investono solo in minorities, ma sono molto piccoli. In questi giorni sto sentendo alcune riflessioni a riguardo: molte di queste società sono state lanciate nel 2020. Hanno avuto una grande spinta all’inizio, ma avranno la possibilità di raccogliere nuovi fondi?».