Il digitale a scuola cambia il modo di imparare e insegnare. Ecco perchè è giusto farsi qualche domanda
Prendi un’aula, una classe. Ricorda la tua, nel mio caso quella degli anni Ottanta. Se ripenso alle elementari e alle medie: banchi di legno a due a due, sedie verdoline, lavagna, cattedra. In quinta elementare la disposizione era a ferro di cavallo, eravamo dodici in tutto, ci stavamo e così non c’era né l’ultima né la prima fila. Al liceo, poi, l’aula era sostanzialmente identica a quella delle elementari. E oggi, trent’anni dopo, ogni volta che entro in una classe la trovo uguale a quella di allora. Così mi chiedo: il modo di imparare e insegnare è sempre lo stesso?
Me lo domando perché nel frattempo è passata un’epoca e il mondo è cambiato. E di esperimenti di aule diverse ce ne sono molti. Non solo nelle scuole nord europee, ma anche in Italia, perché agire sullo spazio non è secondario e spesso diventa parte stessa del metodo formativo.
Specie ora che il digitale è potenziale parte integrante dell’apprendimento e dell’insegnamento, laddove non si registra un passaggio dalla scuola analogica a quella digitale, ma si ha uno sviluppo molto più interessante e potente: il digitale è l’abilitatore di tante possibili innovazioni dal punto di vista formativo, un’esigenza centrale se pensiamo all’abbandono scolastico, sempre troppo alto in Italia, quando ci riferiamo alla scuola dell’obbligo, e alla inadeguatezza di molti percorsi formativi, quando parliamo di ambito universitario o parauniversitario.
Il digitale oggi permette di rivoluzionare la nostra scuola a tutti i livelli, ma nonostante le eccellenze esistano tutto rimane bloccato, rimandato a data da destinarsi, fermo in cavilli e discussioni sempre centrate su burocrazia, insegnanti, contratti e dettagli
Non si mette lo studente al centro, nella costruzione di una scuola realmente student-centered. Non si sfruttano l’innovazione che corre, gli esempi esistenti, la voglia di molti di costruire una scuola diversa, adatta a formare la nuova classe dirigente del Paese. Non ci si rende cioè conto che la scuola non è il nostro futuro in termini populistici, ma è davvero l’unica possibilità di cambiare questa Italia.
Ecco perché oggi ha senso sottolineare che ci sono alcuni temi, concetti, parole non più rimandabili. Mi riferisco alla flipped classroom, la classe capovolta, una metodologia interessante perché tiene conto della diversa forma mentis dei ragazzi degli anni Dieci e costruisce un modo di apprendere basato sulla ricerca personale e di gruppo, sul confronto con compagni e insegnanti, sul sostituire la tipica spiegazione in classe anticipando lo studio individuale e facendo seguire a questo una discussione formante, attiva, partecipata.
Da qui si sviluppa anche la peer education, l’educazione tra pari, sperimentata benissimo soprattutto nei tanti laboratori di coding, coderdojo in primis, in cui alla domanda del bambino risponde, laddove possibile, un altro bambino, e l’insegnante entra in gioco solo dopo. Si può sviluppare in questo modo un fenomeno di co-education, di formazione circolare utilizzabile poi anche in ambito universitario e di formazione continua, laddove il lifelong learning, come ben illustrato poche settimane fa dal report sul futuro del World Economic Forum, è questione centrale per lo sviluppo professionale e personale di tutti noi.
Nei mesi scorsi LinkedIn ha pubblicato i cinque lavori attualmente più ricercati, cinque lavori che non esistevano cinque anni fa: come affrontarli, se non con una formazione che sia continua e sappia adattarsi alle richieste del mercato del lavoro? Se non con una formazione di base che sia in grado di trasmettere metodi di ricerca, capacità di problem solving e progettualità? Sono queste le sfide che dobbiamo mettere al centro della scuola a tutti i livelli. E ci sono altre parole cruciali: innovazione, com’è ovvio che sia, non solo per l’apprendere ma anche per l’insegnare, non solo perché si lavora e molto in ambiente digital ma anche perché dobbiamo rivoluzionare gli spazi dell’apprendimento.
C’è poi il discorso dei Mooc, la formazione attraverso l’online, che si pensava avrebbe democratizzato l’accesso all’istruzione e invece ha attirato finora un pubblico già molto qualificato: questi corsi sono cioè un ottimo modo per formarsi di continuo (anche se non possiamo pensare di sostituire l’aggiornamento professionale così, all’online va sempre aggiunto l’offline, il lavoro di gruppo, il confronto in aula, la relazione), ma è evidente che c’è ancora tanto da innovare anche qui, perché a oggi replicano il modello aula su un computer, non cambiando il metodo di apprendimento. Si deve invece guardare, e molto, al mondo del gaming e delle app, perché di esempi interessanti in fase di sperimentazione avanzata ce ne sono diversi.
Insomma, c’è molto da fare, mettendo in chiaro però che il digital, concetto non banale questo, non è la soluzione da applicare per cambiare la scuola, ma un mezzo utile per innovare la didattica
Grazie al digital, la classe diventa quindi un ambiente, fisico o virtuale a seconda dei diversi momenti, in cui lo studente apprende in maniera partecipata e proattiva e il docente insegna attraverso il confronto e la condivisione. Una rivoluzione impostata sulla crescita personale e sulla capacità di accompagnare gli studenti da un punto A a un punto B, non un semplice corso ma un importante percorso di apprendimento e sviluppo. Se partiamo da qui, possiamo poi affrontare la sfida più grande: sviluppare una nuova italian education experience.
Qual è, cioè, la via italiana alla formazione che dobbiamo mettere in campo? Partiamo da qui, da parole chiave come flipped classroom, coding, peer education, learning by doing, lifelong learning, metodo, progettazione e problem solving. Partiamo da qui, nel costruire una scuola nuova, facciamolo da quella materna a quella secondaria fino all’università, alla formazione continua, ai master e alla formazione aziendale. Solo se troveremo una via italiana recupereremo centralità culturale, in Europa e nel mondo, e daremo una reale possibilità di sviluppo a tutti i nostri giovani.
Articolo precedentemente pubblicato su CheFuturo!
di ALESSANDRO RIMASSA