In un mondo in cui oltre 820 milioni di persone non hanno da mangiare, ogni anno si sprecano due miliardi di tonnellate di cibo: una quantità sufficiente a sfamare 1,26 miliardi di esseri umani. Sara Roversi (Future Food Institute): “Occorre collaborare con le grandi aziende e supportarne la transizione sostenibile”
Lo scorso 15 novembre, una stima ufficiale delle Nazioni Unite ha confermato che la popolazione mondiale ha superato gli otto miliardi di persone. Il tasso di crescita, ancora rapido, sta comunque rallentando e dovrebbe azzerarsi all’inizio del prossimo secolo, quando, secondo l’Onu, ci saranno 10,9 miliardi di abitanti.
Ad aumentare è anche il numero di persone che soffrono la fame, compreso fra i 702 e gli 828 milioni a livello globale lo scorso anno, circa 46 milioni in più rispetto al 2020 e 150 milioni in più dallo scoppio della pandemia. Non solo: nel 2021, 2,3 miliardi di individui, quasi il 30% del totale, si trovavano in una situazione di insicurezza alimentare moderata o grave, mentre 3,1 miliardi non hanno avuto accesso a una dieta equilibrata. Soltanto in Italia, segnala Coldiretti, in 2,6 milioni sono costretti a chiedere aiuto per mangiare, rivolgendosi alle mense per indigenti o alle donazioni e alla beneficienza.
La gravità dei dati riportati si fa ancora più pesante se confrontata con un’altra cifra, inerente allo spreco alimentare. Le previsioni della Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, affermano infatti che il cibo perso e sprecato in tutto il mondo potrebbe sfamare 1,26 miliardi di persone ogni anno.
Spreco e perdita alimentare, due facce della stessa medaglia
La Fao ha distinto la perdita alimentare, ossia la perdita di massa o qualità nutrizionale del cibo in origine destinato al consumo umano e causato da inefficienze nella filiera, dallo spreco alimentare. Questa seconda espressione indica il cibo scartato, al punto vendita o dal cliente finale. In totale, circa un terzo del cibo prodotto rimane non consumato, vale a dire una quantità di 1,3 miliardi di tonnellate – oltre due miliardi secondo altre stime. In particolare, quasi il 14% degli alimenti prodotti viene perduto nei vari momenti della produzione. Il 17% si spreca nella vendita al dettaglio, nei ristoranti o nelle singole case.
Tuttavia, uno studio pubblicato lo scorso anno da Slow Food ha cercato di approfondire e ampliare gli elementi di valutazione dello spreco alimentare, prendendo in considerazione criteri non solo quantitativi, ma anche qualitativi. Il report ha osservato come la filiera agroalimentare lungo la quale viene dissipato il cibo sia più lunga di quanto potrebbe apparire.
La grande distribuzione ha seguito una produzione standardizzata, lontana dai reali bisogni dei consumatori
In primo luogo, la perdita inizia prima della semina, al momento della pianificazione della produzione, che segue parametri diversi dalla domanda effettiva di cibo, fra cui eventuali accordi con i rivenditori. La questione sottende un’altra e più diffusa problematica, secondo Sara Roversi, fondatrice e presidente di Future Food Institute, organizzazione no profit nata a Bologna e attiva su più campi per la transizione sostenibile, dalla formazione a collaborazioni con aziende e istituzioni.
“Va segnalato una logica a volte poco sensata applicata dalle filiere distributive“, spiega Roversi a StartupItalia. “Negli ultimi decenni, la grande distribuzione si è concentrata sulla massima efficienza. Eppure, questo metodo ha finito per favorire una produzione standardizzata, con grandi quantitativi, seguendo proiezioni e dati spesso lontani dai reali bisogni dei consumatori“.
Consumatori che, specifica la presidente di Future Food Institute, “spingono sempre di più per un’alimentazione basata sulla dieta mediterranea, alla base di uno stile di vita più sano che con Future Food Institute promuoviamo da anni. Invece, sugli scaffali, trovano prodotti decisi in precedenza. Si può quindi creare una discrepanza da questo punto di vista”.
In più, questo modo di operare da parte delle catene di distribuzione ha contribuito nel tempo ad affermare una concezione fuorviante della scelta alimentare. “I retailer hanno grandi responsabilità. Non hanno educato i clienti alla sostenibilità, ma a un concetto di spesa secondo cui è normale trovare le fragole nel periodo natalizio o acquistare a niente pomodori in ogni momento dell’anno”.
Secondo Slow Food, anche lo smaltimento dei rifiuti implica uno spreco di risorse
All’altro estremo della catena, invece, il piatto sui tavoli delle case non può essere considerato l’ultimo potenziale momento di spreco. Questo perché, sostiene l’organizzazione, anche lo smaltimento dei rifiuti richiede un ulteriore spreco di risorse.
Secondo Slow Food, diviene dunque fondamentale riconoscere al cibo il proprio fondamentale valore per l’umanità, senza ridurlo al concetto di merce. La valenza di bene comune è necessaria anche a livello istituzionale, per guidare nella formazione di politiche che non puntino soltanto a migliorare le inefficienze presenti, ma a cambiare a livello strutturale i criteri seguiti da produttori e rivenditori. A livello europeo, questo sforzo si è tradotto, dal 2016, nella costituzione della piattaforma dell’Ue sulle perdite e gli sprechi alimentari. L’ente riunisce le istituzioni comunitarie, esperti nazionali e portatori di interessi, con l’obiettivo di dimezzare gli sprechi alimentari nel continente entro il 2030.
Buttare cibo costa e inquina
Un rapporto pubblicato nel 2009 dalla Fao segnalava come la produzione alimentare da vegetali e animali dovrebbe aumentare del 70% entro il 2050, per far fronte all’incremento della popolazione mondiale. Questa previsione pone un problema non più procrastinabile alla sostenibilità dell’agricoltura intensiva, tra le maggiori cause di perdita di biodiversità e responsabile, a livello europeo, dell’11% delle emissioni inquinanti totali, e degli allevamenti, causa del 14,5% dell’inquinamento atmosferico mondiale.
In altri termini, secondo una ricerca di Green Peace, “le emissioni globali derivanti dall’allevamento sono paragonabili a quelle dell’intero settore dei trasporti“. Inoltre, mentre il consumo alimentare aumenta, le risorse e gli ecosistemi terrestri sono sempre più esposti e fragili a causa dell’attività umana. È sufficiente considerare che, stando ai risultati pubblicati dalla Fondazione Barilla, il settore agricolo preleva il 70% dell’acqua dolce proveniente da fonti di superficie o da falde acquifere. Il 90% della impronta idrica umana, ossia l’indicatore che misura la quantità di acqua utilizzata nelle fasi di produzione di un bene, è legata al consumo alimentare.
Proprio gli ambienti di acqua dolce sono tra i più sofferenti a causa dell’inquinamento, dello sfruttamento eccessivo e della captazione delle acque. Eppure, in queste aree, pari all’1% dell’intera superficie terrestre, vive un terzo dei vertebrati del pianeta – la cui abbondanza è calata dell’83% negli ultimi 50 anni. Altrettanto fondamentale è la salvaguardia per la vita umana: metà della popolazione mondiale vive a meno di tre chilometri da zone con presenza di acqua dolce.
Lo spreco e la perdita alimentare costano oltre 600 miliardi di dollari all’anno
Ai danni provocati dall’inquinamento e della perdita di biodiversità, si aggiungono i costi economici derivanti dallo spreco alimentare. Una ricerca di McKnsey stima in circa 600 miliardi di dollari all’anno il prezzo da pagare a causa del cibo perduto e sprecato. Altri calcoli parlano di cifre anche più alte. Secondo la Fao, considerando soltanto la perdita alimentare, il prezzo sarebbe di 400 miliardi di dollari annuali, mentre per lo studio di Slow Food, basato su dati della Commissione Europea, l’impatto dello spreco alimentare nel suo complesso ammonterebbe a 750 miliardi di dollari, l’equivalente del Pil della Svizzera.
Quali alternative per il futuro?
Le buone notizie risiedono nell’impegno crescente delle istituzioni, come l’Unione europea, a combattere lo spreco alimentare. E, soprattutto, nel fatto che apportare miglioramenti sostanziali alla situazione attuale significa mettere in campo soluzioni non troppo difficili da attuare.
Alcune opzioni sono proposte da Slow Food, a partire dall’implementazione delle banche del cibo. Si tratta della donazione di alimenti vicini alla data di scadenza o di consumo consigliata a organizzazioni benefiche, incaricate di distribuire alimenti alle persone in difficoltà economica. Proprio la scarsa conoscenza della differenza di significato tra la scadenza e la dicitura che indica la data di consumo consigliata rappresenta una problematica in grado di aumentare lo spreco alimentare.
Un’alternativa è quella di trasformare in mangime il cibo scartato, danneggiato o non finito, proveniente in larga parte dalla produzione industriale. Tuttavia, sottolinea la stessa Slow Food, questa soluzione comporta anche dei rischi. Il più concreto è quello di “creare un valore di mercato per il cibo danneggiato, scartato e in eccesso, che potrebbe trasformarsi in incentivo per un’ulteriore produzione”. Più promettenti sembrano essere le scelte di favorire prodotti a lunga scadenza ed estendere la durata degli alimenti, tramite l’impiego di ingredienti utilizzati per conservare e migliorare la consistenza.
Dal punto di vista della produzione, è necessario incentivare l’agricoltura 4.0, favorendo l’ingresso delle innovazioni tecnologiche nel settore, al fine di migliorare le prestazioni dei campi e ridurre lo sfruttamento di terreno. Anche nel mondo startup nazionale, l’agroalimentare rappresenta un ambito in forte crescita, con oltre 210 realtà attive e circa 50 investitori istituzionali, nonostante le difficoltà a trovare investimenti nella fase iniziale delle società (StartupItalia ha realizzato un approfondimento dedicato alle startup agrifoodtech italiane).
Quattro italiani su dieci dichiarano di voler acquistare prodotti a km O
È un aspetto centrale anche il supporto allo sviluppo di progetti di agricoltura a chilometro zero, presente tra gli obiettivi del Pnrr. Le cosiddette filiere corte, evidenziava Coldiretti, sono in grado di diminuire fino al 60% lo spreco alimentare. Una tendenza in forte aumento nel Bel Paese. L’associazione ha infatti rilevato come, a seguito della crisi provocata dall’invasione russa in Ucraina, quasi quattro italiani su dieci abbiano intenzione di acquistare prodotti locali e a chilometro zero, in prima posizione alla classifica sulle intenzioni di spesa per i prossimi mesi. Seguono le scelte di comprare cibi italiani e con packaging sostenibile. Questo permette ai consumatori di evitare la spesa relativa agli imballaggi, resa maggiore dall’inflazione. A beneficiarne è anche l’ambiente, che dal packaging e dal trasporto subisce ogni anno l’11% del totale delle emissioni provenienti dall’industria alimentare.
“La pandemia ha portato a un’accelerazione della richiesta di prodotti a chilometro zero“, sottolinea Sara Roversi. “Alcuni mercati tradizionali legati al mondo agroalimentare hanno accelerato il loro percorso di digitalizzazione. Si sono dotati di strumenti e piattaforme per avvicinarsi ai bisogni dei consumatori”. L’argomento, continua la presidente del Future Food Institute, è legato in modo molto stretto al tema, già evidenziato, del cambiamento nelle filiere distributive.
“Occorrerà favorire la trasformazione dei sistemi agroalimentari che, per sfamare davvero il pianeta, dovranno portare i prodotti di qualità nei supermercati di periferia di ogni città a un prezzo accessibile. Ecco perché è fondamentale collaborare con le grandi aziende del settore. Bisogna accompagnarle e supportarne la transizione a modelli migliori, non combatterle”.
In Europa, il 60% dei terreni agricoli è destinato alla produzione di mangime e foraggio per animali
Resta infine la questione relativa al consumo di carne proveniente da allevamenti intensivi. Queste tipologie di allevamenti, oltre a rappresentare un’enorme fonte di inquinamento, richiedono un’enorme disponibilità di superficie coltivabile, da destinare alla produzione di mangime e foraggio per gli animali – in Europa, circa il 60% dei terreni agricoli. E ancora, più del 50% dei cereali utilizzati nel Vecchio continente è impiegato per l’alimentazione animale e soltanto il 19% è destinato al consumo umano.
Il valore dell’educazione contro lo spreco
Anche nei consumi di cibo, così come per molti altri cambiamenti rilevanti nelle abitudini di una società, l’educazione ha un ruolo fondamentale. “Tutto origina dalla formazione delle persone, per apprendere informazioni inerenti a pratiche virtuose e concrete nei confronti del cibo. Piccole trasformazioni nelle case: penso, ad esempio, alla tendenza in crescita riguardo alla preservazione, al riutilizzo e alla fermentazione degli alimenti”, afferma Roversi. “Il cibo è il tema più immediato per cambiare la quotidianità delle persone, portandole ad adottare scelte sostenibili in ogni ambito“.
È fondamentale trasmettere ai bambini la coscienza dei propri nonni riguardo al cibo
Un prezioso valore aggiunto può scaturire dall’incontro tra generazioni diverse che, per motivi differenti, sono interessati alle questioni legate al cibo. “I giovani sono molto attenti riguardo all’innovazione e alla sostenibilità e attivi in attività di campagne di sensibilizzazione. Tuttavia”, prosegue Roversi, “non di rado c’è una distanza fra la volontà espressa e le abitudini reali, nella vita di tutti i giorni. Ed è qui che i nipoti possono imparare dai propri nonni, per altre ragioni sensibili al tema dello spreco alimentare. Per i ragazzi è importante cogliere quella coscienza, ai bambini è fondamentale trasmetterla“.
Dieci startup contro lo spreco alimentare
Un ulteriore aiuto per cambiare o migliorare le abitudini relative al modo di fare la spesa e, più in generale, al cibo acquistato e consumato, arriva dall’innovazione. Sono numerose le startup che offrono servizi e soluzioni utili per ridurre gli sprechi alimentari da parte dei consumatori finali.
StartupItalia propone dieci nomi, cinque internazionali – oltre Too Good To Go – e cinque italiani. Un elenco che vuole essere niente più di un esempio, una piccola e parziale mappa di app e piattaforme sviluppate per migliorare la situazione, partendo dall’esperienza quotidiana dei cittadini e dei ristoratori.
Cinque nomi internazionali
- CHOCO di Berlino. Nata nel 2018, è una piattaforma attiva a livello internazionale che collega fornitori alimentari e ristoranti. Il suo scopo è semplificare il processo di ordinazione e la comunicazione fra le parti. Ottimizzando le ordinazioni, la startup permette di diminuire gli sprechi di cibo e ridurre i costi. Ad aprile ha chiuso un round di serie B di 102 milioni di euro, l’ultimo di una serie di finanziamenti di serie A e B, che l’hanno portata ad avere una valutazione superiore al miliardo di euro.
- KARMA di Stoccolma. Fondata nel 2015, la società ha creato un marketplace in grado di aiutare i ristoranti, bar, rivenditori e negozi di alimentari a ridurre gli sprechi, vendendo il cibo invenduto in offerta ai consumatori. Attraverso l’app di Karma, è possibile registrare la propria posizione e controllare quali piatti è possibile acquistare in sconto da negozi e ristoranti. È presente in 225 città e ha quasi un milione e mezzo di utenti.
- OLIO di Londra. È un’app nata per evitare di buttare il cibo in eccesso, lanciata nel 2015. In modo non troppo diverso da quello applicato da Karma, Olio connette vicini di casa, botteghe e supermercati per condividere gli alimenti rimasti invenduti. Ha ottenuto lo status B Corp ed è carbon negative, ossia elimina più anidride carbonica di quella che produce attraverso le sue attività. È utilizzata da alcune famose catene di alimentari, come Tesco, che ha inserito nella piattaforma oltre 2.700 propri negozi. Olio è attiva a livello globale e lo scorso anno ha chiuso un finanziamento di serie B di 43 milioni di dollari.
Olio è attiva in 62 Paesi e ha permesso di condividere oltre 65 milioni di alimenti
- RECELERY, startup americana. Ha sviluppato un’app tramite la quale accedere a una dispensa alimentare online. Gli utenti possono registrare i loro recenti acquisti di cibo, gestire liste di generi alimentari e visualizzare le dispense virtuali degli altri utenti. Attraverso la piattaforma, possono vendere i prodotti inutilizzati ai propri vicini e invitare gli amici a condividere il cibo della propria dispensa.
- WINNOW, londinese, attiva dal 2013. Ha sviluppato una tecnologia basata sull’intelligenza artificiale dedicata alle cucine dei ristoranti. Permette di misurare quanto cibo viene buttato e ottimizzare gli alimenti da acquistare, limitando gli sprechi e tagliando i costi. Secondo le stime della startup, i ristoranti che utilizzano Winnow riducono la quantità di prodotti sprecati dal 40 al 70% nei primi sei – dodici mesi.
Cinque nomi italiani
- BESTBEFORE, di Arona, in provincia di Novara. Fondata nel 2020, ha sviluppato una piattaforma online dedicata alla vendita di prodotti alimentari imperfetti, di fine stock, vale a dire le rimanenze di magazzino, e in scadenza. Quando il produttore decide di ritirare il prodotto, questo resta in vendita su Bestbefore per una settimana e l’algoritmo della startup calcola lo sconto da applicare.
- CORTILIA, startup lombarda fondata nel 2011. È attiva nel comparto della spesa online a filiera corta. Società benefit con certificazione B Corp, consente di ricevere a domicilio la spesa con cibi provenienti da piccoli produttori locali di qualità. Conta su un catalogo con oltre 2.500 scelte, provenienti da più di 300 piccoli e medi produttori. Ha chiuso un round di 20 milioni di euro a giugno, dopo aver ottenuto un finanziamento di 34 milioni di euro lo scorso anno.
“La pandemia ci ha segnato, abbiamo dovuto soddisfare una domanda cinque volte superiore”, Marco Porcaro, Ceo Cortilia
- MYFOODY (acquisita da PHENIX), nata a Milano, nel 2015. Ha creato una piattaforma che permette agli utenti di conoscere e acquistare i prodotti in scadenza nei supermercati, scontati fino al 50%. Collabora con oltre 200 punti di vendita. Dallo scorso anno fa parte della società francese Phenix, lanciata nel 2015 e oggi presente anche in Spagna, Portogallo e Belgio.
- SPESASOSPESA, fondazione nata nel 2020 a Milano con fini di solidarietà sociale. Persegue il modello sostenibile e solidale sviluppato dalla onlus Lab 00, basato sulle donazioni di cibo e sul recupero di prodotti che andrebbero sprecati e sfrutta la tecnologia creata dalla startup partner Regusto, anch’essa attiva nell’ambito della sostenibilità alimentare, per gestire le transazioni di beni di prima necessità. Inoltre, Spesasospesa mette in contatto i marchi della grande distribuzioni ed enti benefici, per agevolare l’acquisto di cibo entro i limiti di scadenza, lasciando alle aziende di accordarsi con le organizzazioni sui prezzi.
- SQUISEAT, di Bologna. Nata nel 2019, la startup aiuta i ristoranti a svuotare dalla cucina i prodotti invenduti, mettendoli in vendita ai clienti a metà prezzo. Sull’app, gli utenti possono ordinare i cibi rimasti a fine giornata sugli scaffali dei locali, che altrimenti sarebbero buttati. La piattaforma permette anche di prenotare pasti per il giorno successivo ai ristoranti convenzionati. Sono oltre 90 le attività che hanno aderito alla società, con oltre cinque mila ordini effettuati finora.