Il 56% degli intervistati ha dichiarato di essere attento ai comportamenti sociali da parte delle aziende mentre il 47% ha detto di avere smesso di comprare determinati prodotti perché deluso dal comportamento civico dei brand. I dati emersi dall’Osservatorio Civic Brands
Profitto, persone, pianeta. Sono i tre pilastri sui quali oggi si focalizza il Civic brand, verso un impegno che costantemente le aziende dovrebbero perseguire nell’interesse pubblico. A indagare il tema, portando risultati concreti di quello che oggi le imprese realmente fanno nell’ottica dell’impegno civico, è l’Osservatorio Civic Brands, nato nel 2019 a cura di Ipsos, in collaborazione con Paolo Iabichino e Francesca Petrella. Un progetto editoriale che indaga e racconta l’impegno sociale delle aziende e dei brand in Italia e che ha presentato il suo ultimo sondaggio alla Triennale di Milano con la media partnership di StartupItalia. “Il progetto è nato a seguito di una serie di cambiamenti di rotta sui temi sociali, civili, economici – afferma Nicola Neri, CEO di Ipsos – Ricordo che in quel periodo nacque il movimento Black lives matter, Non una di meno, ecc.. Con questo progetto c’è sempre stata la voglia di costruire qualcosa che non fosse legato a una campagna di marketing ma alla costruzione di un contenitore che aiutasse a condividere esperienze sull’attivismo di marca. Il contesto che stiamo attraversando è particolare: viviamo una crisi su più fronti. Capire come le sfide che interessano la nostra quotidianità giocano un determinato ruolo non è semplice ma ci abbiamo provato”.
Leggi anche: «Il civismo di marca parte da uno scavo archeologico. Anche nelle startup». Intervista a Paolo Iabichino
Civic brands: quale scenario in Italia?
Quello che il nuovo consumatore chiede alle aziende è di uscire dal classico perimetro delle “quattro P” di Kotler (Product, Place, Price, Promotion), per rivolgere il proprio sguardo verso Profit, People, Planet (il profitto, le persone e il pianeta). In questo senso, come siamo messi in Italia? Dopo la pesante crisi economica che ha attraversato il pianeta dal 2008 in poi, il conseguente acuirsi delle diseguaglianze e la pandemia hanno provocato un forte malcontento verso un modello di sviluppo considerato non più sostenibile. È in questo contesto che si va instaurando un nuovo rapporto tra cittadino e impresa, in cui quest’ultima non viene più percepita come un semplice attore economico ma un soggetto con precise responsabilità sociali nei confronti di tutti i propri stakeholder. Questa tendenza è confermata anche dall’ultima rilevazione dell’Osservatorio, in cui emerge come oltre un italiano due (56%) dichiara di essere attento ai comportamenti in ambito sociale, culturale o politico da parte delle aziende. Due su tre (66%) vorrebbero che marche e aziende prendessero una posizione chiara e agissero in ambiti sociali più delicati, come i diritti civili, l’antirazzismo, le tematiche di uguaglianza di genere. Dato, forse, più importante è che quasi la metà (47%) dichiara di avere addirittura smesso di comprare alcuni prodotti o servizi di marche e aziende perché deluso dal loro comportamento in ambito sociale, culturale o politico, percentuale leggermente in crescita rispetto alla scorsa rilevazione (+3 punti vs. 2021). “Oggi bisogna cambiare il paradigma del business consumer. È il momento di trasformarlo in qualcosa di diverso: in un modello di business citizen che parla a una comunità diversa e allargata, fatta di persone – spiega Andrea Fagnoni, CCO di Ipsos – In questo senso, sia la scelta di agire in una certa direzione da parte di un brand che quella di non agire comporta una responsabilità e crea soddisfazione o, viceversa, malcontento nei consumatori”. Il tema della persona e del rispetto dei propri diritti è un altro punto centrale, oggetto del panel “People” che ha visto confrontarsi Annalisa Galardi, managing board member di Fondazione Adriano Olivetti, Marta Pieri, head of corporate partnership di Oxfam, Gianluca Toccafondi, head of media global di IKEA.
“Un’azienda nn può fare business se non rispetta i diritti della persona”, ha commentato Marta Pieri. “Il luogo di lavoro deve essere percepito come uno spazio dove ognuno ricerca la propria purpose – ha commentato Annalisa Galardi – come una forza spirituale”.
Fiducia nei brand
Questo nuovo ruolo dei brand porta con sé un altro tema di estrema importanza, quello della fiducia. Oggi siamo di fronte a un consumatore più esigente e più attento quando si tratta di giudicare il comportamento di un’azienda. Un consumatore che concede un credito di fiducia ma che lo ritira anche con estrema facilità, perché è convinto che l’impegno di una marca sia spesso solo un modo per avere la coscienza pulita o un’azione di marketing. “Quando c’è fiducia tra le persone e le aziende, quei brand diventano più interessanti di altri e c’è propensione anche a perdonare eventuali errori. Pertanto, riuscire a costruire al meglio questo rapporto è molto importante”, ha affermato Nicola Neri. Confrontando i nuovi dati con quelli del 2021, si registra un aumento delle persone che dichiarano di non credere all’impegno delle marche in ambito sociale, culturale o politico perché è spesso solo un modo per lavarsi la coscienza (56%, +5 punti vs. 2021), oppure perché il loro unico interesse in fondo è, e rimarrà sempre, il profitto (51%, +7 punti vs. 2021). Se da un lato crescono le aspettative nei confronti dell’impegno sociale di marche e aziende, dall’altro aumenta anche la diffidenza verso azioni di carattere “socio-politico”. “Il profitto viene ancora percepito come la colonna portante del business, ma in questo equilibrio è necessario agire e assumersi la responsabilità fino in fondo e non scaricare sulla comunità il costo dell’impegno e dell’azione – ha affermato Andrea Fagnoni – E un brand civico deve garantire la qualità di vita dei propri dipendenti. Questo è un aspetto fondamentale che crea quell’asse di fiducia necessario per avvicinare i clienti ai brand. Serve concretezza: non trattare le persone come consumatori ma come qualcuno da coinvolgere con chiarezza e coraggio”.
Quanto costa essere sostenibili?
Tra i temi caldi che emergono dall’Osservatorio c’è, senza dubbio, quello della sostenibilità. La richiesta di attenzione è sempre maggiore ma quanto pesa la sostenibilità sulle tasche dei consumatori? In questo particolare momento storico, caratterizzato da forte inflazione e caro vita, per le persone l’attivismo di brand si dovrebbe tradurre piuttosto in un aiuto economico verso il consumatore. Infatti, il 79% dei nostri intervistati sostiene che marche e aziende dovrebbero agire principalmente per aiutare a porre un freno al continuo incremento dei prezzi. C’è anche un 67% che sostiene che molte marche e aziende che si dichiarano “socialmente responsabili” in questo periodo si stiano approfittando della situazione legata all’inflazione e all’incremento dei prezzi. Sebbene il trend che vede il cittadino-consumatore sempre più attento al comportamento sociale delle marche non sia destinato ad arrestarsi, in questo momento di forte difficoltà è accompagnato da un’ulteriore richiesta: le aziende che vogliono occuparsi di temi sociali, culturali o ambientali devono farlo con le proprie risorse, senza scaricare la responsabilità sui cittadini che si vedono costretti a dover spendere molto di più per acquistare un prodotto sostenibile rispetto a uno che non lo è. “L’impegno in ambito sociale è necessario, ma non devono essere i consumatori a pagarne il costo”, ha affermato Francesca Petrella, Communication and Media Relations Manager di Ipsos. Del tema se ne è parlato all’interno del panel dedicato al pianeta con Guerino Delfino, Executive Vice President di Lifegate, Marianna Palella, CEO di Citrus, Edoardo Dall’Asta, Brand Marketing Manager di Innocent Drinks, Nicola Tagliafierro, Head Of Global Sustainability di Enel X. “Ricordiamoci che stiamo utilizzando risorse e lavorare sull’energia rinnovabile e i servizi innovativi porta a essere sostenibili per natura”, ha affermato Tagliafierro.
In questo contesto si inserisce anche il tema della “prosperity”, la “distribuzione della ricchezza”, che dovrebbe portare un benessere diffuso a livello globale, non a un arricchimento smisurato per pochi, verso un concetto più aperto e più diffuso lungo tutte le filiere produttive. “In questo senso si devono incentivare le collaborazioni, verso un approccio green – ha commentato Alessandro Franceschini, presidente di Altromercato – Il ruolo del cittadino è centrale ma la scomodità è associata al concetto di sostenibilità. Non si può pensare che comprare una passata di pomodoro che costa 60 centesimi sia sostenibile. Si deve ammettere che il modello di business attuale non è sostenibile e richiede un cambiamento”. Le riflessioni sono emerse all’interno del panel dedicato alla prosperity con Maria Cristina Alfieri, direttrice di Fondazione Conad Ets, Mirco Cerisola, Country Director di Too Good To Go – la startup nata nel 2015 in Danimarca che combatte gli sprechi alimentari, Flavio Dal Zovo, sales director Italia di Almo Nature.
Startup: sono davvero Civic Brands?
“Come per tutte le altre aziende, anche le startup sono sempre più chiamate ad un impegno concreto verso le persone, la comunità e il pianeta. Per giovani realtà imprenditoriali, vale quello che vale per le aziende più mature: dovranno dimostrare un impatto in maniera misurabile, iniziando soprattutto dall’interno, quindi dai propri dipendenti – ha commentato Petrella – Ci vuole trasparenza e rilevanza rispetto al contesto. Ma, soprattutto, chiarezza e coraggio nelle azioni”. E oggi quale è lo scenario dinanzi al quale ci troviamo? Se ne è parlato all’interno del panel conclusivo con Dario Scacchetti, CEO di StartupItalia.
Dario Scacchetti, StartupItalia
“Ho notato che spesso c’è un’ignoranza crassa nel fare impresa. Trovare l’impresa giusta, investire in un talento e convincerlo a rimanere non è per niente scontato: ci si devono investire tempo e risorse – ha affermato Scacchetti – Magari si parte con un’idea geniale ma mancano le basi proprio nei settori che oggi sono al centro della nostra discussione. In particolar modo per quanto riguarda le persone, le dinamiche legate alla produzione, nell’impatto legato alla supply chain, nel manufacturing. Non si può, oggi, pensare di fare innovazione pensando unicamente al prodotto e al profitto. E in questo senso le metriche di profitto non misurano la sostenibilità, pertanto bisogna cambiare la narrativa”.