«Non potremo certo coltivare arance. Pensiamo più a insalata o a piante vicine alla nostra alimentazione tipica, come piccoli pomodori e peperoncini che migliorerebbero la sapidità del cibo. C’è una nuova attenzione nei confronti dei micro ortaggi: nella prima fase di crescita una piantina è ricchissima di elementi antiossidanti, preziosi per la vita degli astronauti». Franco Malerba è stato il primo astronauta italiano nello spazio, volando a bordo dello shuttle Atlantis il 31 Luglio 1992, col compito di trasportare il laboratorio Eureca e il “satellite a filo” italiano, detto il Tethered.
La storia di Franco Malerba
Nato a Busalla, vicino Genova, nel 1946, è Founder di Space V, startup lanciata con l’obiettivo ambizioso di fornire agli astronauti del futuro serre robotizzate e modulari in grado di migliorare l’alimentazione durante le missioni a bordo della ISS, sulla Luna e là dove l’umanità riuscirà a spingersi.
Fondata nel 2021, Space V si concentra nel settore della ricerca per la produzione di cibo vegetale fresco nello spazio. Di recente ha raccolto un primo round pre-seed dal fondo Galaxia ed è stata selezionata tra le startup italiane ospitate presso l’ESA BIC, aperto dall’Agenzia Spaziale Europea all’interno nell’Incubatore I3P del Politecnico di Torino.
Dopo aver intervistato sul nostro magazine Luca Parmitano, torniamo a parlare con un protagonista della space economy per farci raccontare anzitutto quanto è cambiato il comparto rispetto a decenni fa. «Ai miei tempi c’erano 11 paesi membri dell’ESA, oggi praticamente tutti i paesi dell’UE ne fanno parte». Nel 1977 Franco Malerba si era classificato tra i primi cinque candidati per il ruolo di Payload Specialist della prima missione dello Spacelab.
Per raggiungere lo spazio ha però dovuto aspettare più di dieci anni. Nel 1989 ha partecipato a un’altra selezione di astronauti promossa dall’Agenzia Spaziale Italiana e dalla Nasa per individuare lo scienziato di bordo responsabile del progetto scientifico, nello specifico del satellite Tethered. «Era un tipica missione dello Space Shuttle, con due carichi utili». Era il 1992, l’anno in cui Malerba è diventato il primo astronauta italiano ad andare nello spazio, trascorrendovi otto giorni.
Nessuna passeggiata spaziale però. «Diciamo che per le uscite extra veicolari serviva il dottorato. Io sono arrivato all’università. In più la nostra era una missione scientifica». Dopo quella straordinaria esperienza, Franco Malerba è stato europarlamentare negli anni Novanta, iniziando in seguito anche una carriera di coach e divulgatore. Fino a quando, in tempi recenti, ha deciso di tornare a occuparsi direttamente di spazio, in un periodo in cui le attenzioni di investitori e opinione pubblica sono più vivide che mai.
Cosa serve per vivere lontano da casa
«Durante l’impresa di Magellano molte persone morivano perché o non c’era cibo a bordo o quello disponibile non era adatto. In un certo senso siamo di fronte alla stessa sfida per l’esplorazione spaziale». Tra pochi anni l’umanità tornerà sulla Luna, dopo decenni di assenza (l’ultima volta è stata nel 1972). Sarà un passaggio storico, non soltanto per l’alto valore simbolico, ma anche perché non si tratterà di una toccata e fuga. «A differenza del programma Apollo, con Artemis torniamo per restare. Per farlo però bisogna costruire un’infrastruttura con un habitat compatibile con la vita umana: una delle prime esigenze è coltivare cibo».
Prima di capire come funzioneranno le serre spaziali di Space V, abbiamo chiesto a Franco Malerba come si sia trovato col cibo quando si trovava in orbita. «Non sono mai stato esigente. Prima di arrivare al momento del volo si fanno prove e ciascuno sceglie una sorta di menu, che troviamo pronto con un bollino di colore diverso. Il mio era il violetto. Parliamo però di cibo disidratato che deve essere rigenerato al momento dell’uso. I nutrizionisti ci dicono che non si riesce comunque a renderlo sufficientemente ricco di vitamine».
In ambienti dagli spazi stretti, come è possibile inserire una serra? «Dovrà aver una resa molto elevata, in un volume dato. Non abbiamo prati a disposizione. In più non dovrà consumare molta energia, e dovrà essere sicura e possibilmente automatica. La proposta di Space V è una serra di grande sobrietà energetica. Non avrà ripiani fissi, ma mobili». Ciascuno si alzerà assecondando il percorso di crescita della piantina, rimanendo il più possibile vicina al terreno. «Il fatto di poter pilotare l’intesità e lo spettro della luce che fa crescere le piantine può migliorare la resa della coltura».
Space V punta a sviluppare e testare una serra adattiva in orbita terrestre, sulla Stazione Spaziale Internazionale o anche su stazioni spaziali commerciali che saranno attive nei prossimi anni. «Il cammino non è facile e rapido, ma stiamo avanzando – ha concluso il fondatore -. Al momento siamo partiti da un prototipo terrestre, troppo grande e pesante. Che però ci ha permesso di fare valutazioni e scoprire che si può raddoppiare la resa delle piante».